#Venezia80: Priscilla, la recensione del film di Sofia Coppola

Priscilla, recensione del film di Sofia Coppola presentato in anteprima mondiale a #Venezia 80. DassCinemag

È un ritratto di infinita dolcezza quello che Sofia Coppola dedica alla protagonista del suo Priscilla (trailer), in Concorso all’ottantesima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. E in cui la regista sembra convogliare una cura quasi materna nel raccontare la storia di una ragazza comune, una giovane come tutte le altre, alle prese con il suo primo, grande, travolgente amore adolescenziale. Senonché, per quanto comune lei possa essere, questa storia d’amore tanto comune non è, e il suo innamorato (ci è sfuggito di nominare Elvis Presley?) tanto comune proprio non è.

Eppure sta tutta qui la tenerezza di Priscilla, nel suo essere quasi una delle tante protagoniste di un teen drama – con tanto di tipica ambientazione in una high school – nonché nella prossimità affettiva che la macchina da presa concede fin da subito tra lo spettatore e il volto sempre in primo piano della ragazza. A tale trattamento si prestano i candidi tratti di Cailee Spaeney, che personifica nella sua micro-espressività tutte le insicurezze e i sommovimenti interiori di una quattordicenne alle prese con la prima cotta – e allo stesso tempo amplifica la sensazione di disagio nel renderci partecipi di un incontro tra un uomo e quella che di fatto è ancora una bambina.

La prima parte del film – la più riuscita – si preoccupa di costruire questa prossimità, nel raccontare il primo incontro tra Priscilla ed Elvis, la nascita della loro intimità, la fascinazione di una giovane per la celebre rock star e l’attrazione del divo per la purezza di lei. Sofia Coppola sceglie intelligentemente di sottrarsi ad un facile confronto con l’Elvis di Baz Luhrmann e Austin Butler, affidando a Jacob Elordi la figura di un uomo demistificato, lontano dalle glorie del palco (se non in una breve scena iniziale non canterà mai) e guardato soltanto dall’interno delle mura domestiche. Perché è il punto di vista di Priscilla l’unico a posarsi su di lui, l’unico a presentare prima l’immagine di una passione travolgente, di un’attrazione magnetica, poi quella di una forza coercitiva, sempre più pressante e stringente intorno all’esistenza della compagna. Non bisogna dimenticare, d’altronde, come il film sia l’adattamento di Elvis e me, libro di memorie che Priscilla Presley pubblicò nel 1985 (dopo la morte dell’ex marito).

La relazione dei due è quindi filtrata interamente dallo sguardo di Priscilla, dal suo arrivo a Graceland all’inizio della loro vita insieme, dal matrimonio fino al momento della separazione. Da indifesa liceale, la ragazza attraversa le fasi dell’adolescenza accanto all’ingombrante presenza della star, così amorevole e protettiva quanto possessiva e manipolativa. È lui a decidere cosa Priscilla può o non può fare, come deve vestirsi, quali colori le stanno meglio, quanto le è concesso dire sul suo conto e persino quando è il “momento giusto” per fare per la prima volta l’amore. D’altra parte ci pensa la macchina da presa a sottolineare la forzatura che tali azioni provocano sulla ragazza, seguendo ogni minima tensione inespressa e compressa nello sguardo della protagonista.

In fondo Priscilla è sì il racconto di una storia d’amore, ma anche e soprattutto un affresco senza mezzi termini di una relazione tossica, quella in cui una ragazzina innamorata di un uomo più grande e famoso – in breve più potente – mette a sua disposizione la propria intera esistenza, succube del suo fascino e dei suoi abusi emotivi, disposta totalmente a plasmarsi secondo la volontà altrui.

La figura di Elvis che ne risulta è a tratti impietosa, probabilmente la più negativa mai fornita del grande divo, spesso cinico, soggetto a scatti di violenza, infantile sullo scegliere la direzione della propria vita ma d’altra parte duro su quella da impartire alla moglie. Jacob Elordi sfrutta tutta la sua fisicità e imponenza per restituire un senso di oppressione aleggiante di continuo sull’esile controparte. C’è da dire che la messinscena non mette sotto i riflettori il suo lavoro sul personaggio, nei confronti del quale lo spettatore è così portato a sviluppare un senso di repulsione.

Lo stesso che pian piano inizia a covare dentro di sé Priscilla, il cui arco di trasformazione sarà in definitiva quello di una presa di coscienza, alla ricerca della propria autonomia e identità individuale. A parte un po’ di stanchezza nel finale, ne risulta un intimo e profondo ritratto di una donna come tante, una storia d’amore universale calata in un contesto straordinario che rilegge e decostruisce dal punto di vista femminile una delle relazioni più discusse e chiacchierate del Novecento americano.

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