The Wandering Earth, un saggio cinese sull’entertainment: la recensione del film su Netflix

The Wandering Earth

Il blockbuster The Wandering Earth diretto da Frant Gwo è un nuovo e ambizioso progetto cinese, che non sta passando inosservato in terra natia, tant’è vero che Netflix ha deciso di distribuirlo sulla propria piattaforma per renderlo visibile in tutto il mondo. Il film, pur avendo un budget di soli 50 milioni, è riuscito in poche settimane ad accaparrarsi quasi 700 milioni di dollari al box office cinese, rivelandosi uno dei progetti orientali più remunerativi della storia, al pari dei kolossal fantascientifici americani.

La storia comincia subito da uno squilibrio, dovuto ad un evento apocalittico: in un futuro non troppo lontano (quel “non troppo lontano” dal sapore kubrickiano), la Terra ormai morente è in rotta di collisione con Giove a causa di un piano folle e fallimentare, ovvero il dirottamento del pianeta verso un nuovo sistema solare. Mancano esattamente 37 ore alla fine del mondo e un gruppo di civili, con l’aiuto di alcuni soldati, tenta di scongiurare la catastrofe.

La narrazione non si concentra tuttavia solo su questo utopico tentativo di salvare il pianeta terra, ma si sposta anche su un lato più emotivo e introspettivo, raccontandoci la storia del giovane Liu Qi che, dopo diciassette anni dalla partenza del padre (il quale è un famoso astronauta di nome Liu Peiqiang), potrà finalmente ricongiungervisi. Il ragazzo si mostra però ancora scosso e rancoroso nei confronti del genitore, non riuscendo a perdonarlo per la sua assenza durante la sua infanzia e adolescenza. L’imminente tragedia cambierà le cose…

Trama a parte, The Wandering Earth colpisce in quanto significativo esempio di come l’industria cinematografica del Dragone sia in continua evoluzione. Sembrano lontani gli anni in cui la commissione di censura di Stato metteva al bando film di grande impatto commerciale nel resto del pianeta (una su tutte quella di Pirati dei Caraibi – La maledizione del forziere fantasma per una scena di cannibalismo). L’evidente liberalismo attuale della distribuzione multischermo conferma il passo in avanti, esaustivo.

Ciononostante, il soggetto di questo film – pur presentando caratteristiche intriganti e molto simili ai kolossal americani – non rileva delle scelte di sceneggiatura particolarmente innovative, optando per una narrazione abbastanza lineare, con la solita storia di contorno drammatica e familiare che ci viene abitualmente propinata nei film catastrofici. La stessa morale è indirizzata verso un finale forzatamente ottimista e addirittura nazionalista, conseguente al desiderio di imporre un punto di vista strettamente cinese. Più orientalista che patriottico, più dogmatico che propagandistico, il film può essere quindi visto anche come un saggio cinese sulla lezione dell’entertainment hollywoodiano.

A livello tecnico, il terzo lungometraggio di Frant Gwo non nasconde una certa propensione all’animazione nipponica nella fluidità di certi effetti speciali i quali, pur essendo complessivamente impressionanti, a volte risultano troppo ostentati, scattosi e che finiscono per perdere di credibilità agli occhi di semplici spettatori.

Analizzando il complesso, però, si rivela un brillante progetto e un piacevole disaster movie di una Cina che non vuole passare inosservata.

A cura di Alessia Pastori e Gianmarco Cilento

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