#FKFF22: Cobweb, la recensione del film di Kim Ji-woon

cobweb recensione

« Non c’è differenza tra realtà e finzione, perché il cinema è la realtà che si esprime attraverso se stessa » diceva Pasolini nell’illuminante cortometraggio documentario di Agnès Varda, 1967 – Pasolini in NYC. Ed è un’idea (o una filosofia, una presa di posizione) che Kim Ji-woon tenta di analizzare in maniera più lucida ed empatica possibile.

Kim-yeol (Song Kang-ho) è sicuro che il suo nuovo film sarebbe un capolavoro se solo potesse rigirarne il finale. Allora vengono richiamati sul set troupe e interpreti per due giorni di riprese. Qui la vita delle persone si fonde con la nuova sceneggiatura: gli attori e i loro celati rapporti amorosi e tradimenti sia sullo schermo che non, il regista Kim, sbeffeggiato dalla critica, che cerca disperatamente redenzione, e che vive ancora all’ombra del suo maestro, o le produttrici che combattono con gli imprevisti e la censura. Prende così vita Cobweb (trailer) (di Kim Ji-woon o dell’alter-ego Kim-yeol?), intriso di un romanticismo perturbante e ossessivo; a tratti un backstage-movie, definito da una scattante, imprendibile, camera a mano che pedina i personaggi (persone) che tentano di sfuggirle, e che ricordano per certi versi il magnifico Zombie contro Zombie.

Quello di Kim Ji-woon è un cinema di fantasmi. Spettri persistenti e vivi nel tempo con cui confrontarsi, che spesso esistono come aura, ma che qui si palesano. Infatti, se ne Il buono, il matto, il cattivo aveva adattato alle logiche della Manciuria il capolavoro di Leone (e quindi aveva aggiunto all’incontro tra il pensiero registico europeo e l’estetica americana, un’idea di cinema asiatico), o si era confrontato con generi che hanno già una loro (apparente) chiusa, come il thriller-horror (I Saw the Devil), qui finalmente appare, fatto di materia, un visionario maestro (forse esistente, forse no), forte nelle convinzioni come il John Ford – David Lynch di The Fabelmans

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Il regista Kim lo guarda, lo ascolta, finché il mentore, colmo di passione ardente, prende fuoco, come se morisse una seconda volta e nello stesso modo. È allora che l’allievo deve agguantare il meglio dell’insegnante e rimodularlo per girare una delle scene finali (non casualmente quella dell’incendio) con il più nitido artificio rappresentativo della realtà, il piano sequenza, per riviverla e forse accettarla. Qui lo studio cinematografico, uno spazio limitato ma dentro al quale vivono ambienti infiniti, muta, si sposta e diventa altro, un luogo libero, sincero. Vanno a crearsi legami intricati dentro e fuori il set. Una ragnatela di persone, di vite, di interpretazioni e pensieri che confluiscono in un singolo progetto.

Il cinema di Kim Ji-woon vive tra dramma, commedia, horror, neo-western. Un cinema d’autore, incline a quell’ibridazione di generi tanto necessaria per l’osservazione del presente. Vediamo il finale del film di Kim-yeol. Titoli di coda. Song Kang-ho, Im Soo-jung, diretto da Kim Ji-Woon. Il pubblico nella sala piena al Florence Korea Film Fest applaude. Poi anche sullo schermo spettatori che battono rumorosamente le mani. L’inaspettata sequenza ha un effetto straniante e i nostri applausi cessano, mentre i loro continuano. Quindi non siamo noi? C’è una telecamera che ci sta riprendendo? Al momento no. È un altro pubblico che ha visto il film (quando? Dove?) e l’ha amato. Ma Kim-yeol (o Kim Ji-woon, nomi che continuano ad intersecarsi) è serio, una faccia di pietra, e non siamo ancora sicuri che abbia realizzato quello che pensava essere il suo capolavoro.

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