#RomaFF17: The Fabelmans, la recensione del film di Steven Spielberg

The Fabelmans recensione film Spielberg DassCinemag

Un bambino seduto in sala incantato davanti allo schermo cinematografico, gli occhi illuminati dal riflesso della luce del proiettore. Occhi da sognatore gonfi di determinazione e curiosità. Eppure non si parla di Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore. La ricostruzione di una verità nascosta attraverso l’osservazione della pellicola. La macchina che arriva a svelarci ciò che l’occhio non ha potuto osservare. Eppure non si parla di Blow Up di Antonioni.

The Fabelmans (trailer) è il “nuovo” film di Steven Spielberg, ma di nuovo si può parlare solo per via della data di uscita. Il film vuole essere una sorta di autobiografia romanzata del più noto regista hollywoodiano della storia del cinema: la storia di un ragazzino cresciuto in una famiglia ebrea e spaventato dal mondo che trova la meraviglia nella macchina da presa, iniziando a filmare tutto ciò che può, scrivendo e dirigendo cortometraggi con le due sorelline. Con questa sua ultima pellicola Spielberg sembra voler raccontarci il suo amore per la settima arte attraverso la sua esperienza reale e citazioni più o meno nascoste. Ma quello che risulta è un susseguirsi di cliché classici (e nel 2022 considerabili solamente noiosi) del cinema americano: il college coi bulli che prendono in giro il nuovo arrivato, il ragazzino con il sogno di diventare qualcuno ma con il padre che lo vorrebbe vedere studiare ingegneria… Siamo davanti al già visto e rivisto.

L’effetto che dà allo spettatore la visione di questo film è quello che deve essere stato per gli amici di Alice sentire il racconto del paese delle meraviglie, i misteri della tana del bianconiglio: l’incapacità di riportare le emozioni vissute, l’impossibilità di descriverne la bellezza. E forse Alice, senza più storie da raccontare, dovrebbe limitarsi a tenersele per sé e godersi la pensione piuttosto che ammorbare per più di due ore il pubblico pagante. La parte comica, fondata inspiegabilmente sull’ironizzare sulla religione, genera un grande imbarazzo piuttosto che risate spontanee. La parte drammatica invece ci mostra i problemi di un povero piccolo borghese, a cui non è mai stato vietato nulla, che si è sempre potuto permettere tutto grazie ai soldi del papà. Sostanzialmente le emozioni sono nulle e più che empatia per il privilegiato protagonista quella provocata è una sottile invidia nei suoi confronti.

Ma quando il dramma è nullo, la comicità è pessima e l’originalità è zero, l’unica cosa che può salvare il film è la tecnica. E Spielberg certamente non si è dimenticato come ci si destreggia con la macchina da presa. La regia è impeccabile, movimenti che solo un veterano riuscirebbe a gestire e quadri sempre bilanciati. Forse però con gli anni si è dimenticato come dirigere gli attori: Paul Dano, nei panni di un padre senza mordente e inespressivo, e Michelle Williams, una madre depressa generalmente esagerata e poco credibile. The Fabelmans sembra poter essere l’epitaffio della sua carriera, raccontare la sua storia per lasciare il testimone a nuovi e intraprendenti registi che possano imparare da lui la sua idea di cinema. La speranza è che lo sia davvero.

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