#XavierDolan – Juste la fin du monde (2016)

Juste la fin du monde (2016)

Juste la fin du monde (qui il trailer), come tutti i film del regista franco-canadese, ha conquistato premi e candidature in alcuni dei più importanti festival cinematografici. Nel 2016 viene presentato a Cannes vincendo il Grand Prix Speciale della Giuria. Nel 2017 viene scelto per rappresentare il Canada agli Oscar, come miglior film straniero. Si tratta della sesta opera di Xavier Dolan, nonché una delle più discusse. La critica, per Juste la fin du monde, si divide radicalmente: c’è chi urla al capolavoro e chi lo definisce un film orribile. Ebbene, a nostro avviso sia l’una che l’altra definizione costituiscono un’esagerazione. 

Il giovane Louis (Gaspard Ulliel) è uno scrittore di successo che fa ritorno a casa dopo dodici anni di assenza per comunicare la sua morte. Ad accoglierlo trova un ambiente caotico, eccessivo e turbolento. Il nucleo è composto da una madre estrosa (Nathalie Baye), una sorella (Léa Seydoux) che non lo conosce ma che è cresciuta idolatrando da lontano la sua figura, un fratello arrogante e scontroso (Vincent Cassel), dal quale viene odiato per essersene andato, ed infine una cognata (Marion Cotillard) mai incontrata prima, l’unica capace di empatizzare con il protagonista. Dolan si avvale di un cast di grande valore: le interpretazioni degli attori risultano intime e penetranti. I momenti di silenzio di cui si compone il film, tuttavia, pullulano di un’energia che risulta fine a se stessa, impossibilitata a valicare i confini del corpo umano. La staticità di corpi inetti viene compensata dallo spessore delle emozioni che sfigurano i loro volti e dai dialoghi scarni ma taglienti come coltelli.

Con Juste la fin du monde conosciamo un Dolan diverso, un Dolan forse difficile da accettare, a volte difficile da riconoscere. Sul piano visivo, nei primi cinque film, lo specifico della poetica del visibile della regia dolaniana era stata proprio la potenza esplosiva dell’immagine . Un’esplosione contenuta o distruttiva ma sempre presente. Una specifica e modulabile poetica del suono e della visione. La regia di Juste la fin du monde, invece, rimane nella dimensione potenziale di se stessa. È un Dolan epidermico, rintracciabile sulla superficie delle immagini, ma fermo sui margini di quella capacità di penetrazione emotiva cui si era stati sottoposti in passato. L’esplosività diventa implosività. La realtà finzionale rimane prigioniera dell’immagine e non cerca più vendetta su di essa, come la cercava Steve in Mommy intervenendo per modificare lo schermo, per uscire da esso. I colori, in passato considerati come elementi del film attraverso i quali l’immagine assume un significato autonomo, in Juste la fin du monde si pongono al servizio della narrazione. Una narrazione circolare, il cui inizio è giustificato unicamente dall’imminenza di una fine. E la fine si percepisce fin dall’inizio: è una partenza verso la morte.

Concentrando l’attenzione sugli aspetti tematici, questa è la prima volta in cui il regista mette in scena un testo non originale e di conseguenza non profondamente personale. La sceneggiatura del film è un adattamento dell’omonima opera teatrale di Jean-Luc Lagarce, un drammaturgo francese che ebbe la sfortuna di avere maggior fama in morte che in vita. Lagarce, molto rappresentato tutt’oggi in Francia e nel mondo, morì nel 1995 per AIDS, a soli 38 anni. Juste la fin du monde è un’opera intimamente autobiografica. Pertanto, per la prima volta, Dolan satura le immagini di un’anima che non è la sua. È una storia di seconda mano, che tuttavia è finita nelle mani giuste. Non è mai facile trasporre cinematograficamente un’opera teatrale, in particolar modo quando si tratta di una pièce claustrofobica e chiusa come questa. È un testo che si muove magistralmente all’interno dello spazio limitato di un palcoscenico, ma che al cinema rischia l’asfissia. Il regista ne è consapevole e sceglie di fare della dimensione asmatica dell’immagine il tema figurativo dell’opera.

Dolan procede con equilibrio precario, rispetta la narrazione del drammaturgo ma ne reinventa l’assetto visivo. Supera l’estetica teatrale pur rimanendo all’interno dei suoi confini. Quasi tutta la narrazione è ambientata all’interno della casa, con un fuori campo che è il mondo esterno, e si svolge nel corso di una giornata, adattando cinematograficamente il concetto teatrale di unità spazio-temporale. Ma quello stesso spazio, unico e confinato, viene frammentato dalla macchina da presa. Lo stesso accade con i corpi: se il teatro ci restituisce l’interezza della fisicità degli attori, nonché l’ampiezza delle loro gesta, il cinema è un mutilatore, esegue deturpamenti corporei isolando arti e volti. Così, Juste la fin du monde è un film di primi e primissimi piani. Dolan si avvicina ai personaggi di Lagarce più di quanto possa fare il teatro stesso, loro luogo d’origine. Questo scarto dal teatro al cinema, il passaggio dai corpi ai volti, funziona come un’analisi sentimentale dei personaggi; un’immersione nella dimensione emotiva che solo la vicinanza alle espressioni facciali è in grado di restituire. Dolan sviscera l’opera del drammaturgo, ne psicanalizza il testo. 

Juste la fin du monde (2016)

Incipit del film: su un frame nero, suoni off di un aeroporto. Louis è sull’aereo, un’hostess lo invita ad allacciare la cintura. Incomincia qui il viaggio dell’eroe all’interno di quello che potrebbe essere il suo ultimo giorno di vita. Il personaggio inquadrato di profilo introduce il motivo della sua partenza e del suo ritorno a casa. Quello che udiamo è tecnicamente un voice over, ma, concettualmente, funziona come un monologo interiore. Nel momento clou del discorso, infatti, il montaggio ci porta sul primo piano di Louis, il quale rende noto che il suo obiettivo è quello di annunciare la propria morte. Louis non sa come andrà a finire e se riuscirà a comunicare questa notizia, ma ha bisogno di farlo per dare agli altri e anche a se stesso <<un’ultima volta l’illusione di essere fino alla fine padrone della mia vita>>.

Partiamo da questo concetto per analizzare i rapporti che intercorrono tra il protagonista e la sua famiglia. Risulta di fondamentale importanza l’idea d’illusorietà del need del personaggio. Nelle ore compresse che passiamo con Louis comprendiamo che quando è in compagnia dei suoi familiari il ragazzo non si trova mai nella posizione di padroneggiare le proprie scelte ed il proprio tempo. Forse è questo il motivo per cui anni addietro lasciò la sua casa ed il paese natale, per andare incontro ad una vita dominata solo da se stesso e lontana da giudizi. Prima dell’arrivo a casa, una sequenza di montaggio alternato introduce alcune delle tematiche fondamentali del film: dal un lato il viaggio in taxi di Louis, dal cui finestrino si passa in rassegna, attraverso una soggettiva del personaggio, una serie di sguardi scrutatori degli abitanti del paese (concetto visivo che abbiamo già incontrato in Laurence Anyways), dall’altro i preparativi domestici per l’atteso ritorno del figliol prodigo. La sequenza si chiude con un focus su un orologio a cucù dal quale sbuca un uccellino di legno, oggetto che costituirà un leit motiv sia figurativo che concettuale fino alla fine del film. Il tempo, o meglio lo scorrere e lo scadere dello stesso, è il protagonista tematico dell’opera e gli orologi, di conseguenza, ne sono l’indice visivo.

Non appena Louis varca la soglia di casa un’ondata di tensione annega le sue emozioni. Il ragazzo si sente sopraffatto dalla famiglia. La madre, la sorella ed il fratello discutono spesso ardentemente. Le voci si accavallano, l’ambiente diventa confusionario, il montaggio concitato. La macchina da presa si posa prima su uno poi sull’altro volto, non riuscendo neanch’essa a stare al passo con gli scambi di battute da un personaggio all’altro. Questo zibaldone audiovisivo grava psicologicamente su Louis. Le inquadrature dall’alto sul volto del protagonista restituiscono l’oppressione percepita dallo stesso. Capita spesso che i dialoghi diventino ridondanti e goffi, rendendo allo spettatore la stessa sensazione di disagio e tediosità avvertita da Louis.

Il film è scandito in macrosequenze, segnalate da dissolvenze in nero, che corrispondono idealmente alla suddivisione teatrale in atti. All’interno di ognuna, Louis gioca la sua partita dialogica con un personaggio alla volta. La dinamica e l’ambientazione degli incontri del protagonista con ognuno degli attanti si struttura in relazione al tipo di rapporto che essi intrattengono tra di loro. Così, il dialogo con la sorella avviene nella cameretta di quest’ultima, ove ella smania per mostrare i propri effetti personali al fratello finalmente incontrato. Intanto Louis fa fatica a seguirla, si distrae mentre lei cerca di attrarre la sua attenzione e dimostrare di essergli sempre stata vicino, leggendo tutte le sue pubblicazioni e le cartoline che egli si è limitato a inviare alla famiglia. Louis, d’altro canto, non sa niente della sorella, ed anche in quel momento, come da sempre, per lei è assente. La conversazione con la cognata avviene in corridoio, in quello che può essere definito il non-luogo di un ambiente domestico, il posto adatto per l’incontro con una sconosciuta. È il dialogo più sincero e più affilato. Occhi negli occhi, i personaggi si parlano con onestà. Catherine (la Cotillard) sarà l’unica ad avvicinarsi all’animo di Louis, l’unica a cogliere, nei loro silenzi, la verità. Fulcro di questa scena, quell’attenzione ai dettagli tipica di Dolan: in sottofondo durante tutto il discorso si ode il ticchettio di un orologio. Un delicato dettaglio sonoro che caratterizza solo questo incontro. Catherine è l’unica persona che può percepire il peso dello scorrere del tempo per Louis e la vicinanza allo scadere dello stesso. Sarà lei, più avanti, a domandare al protagonista “Quanto tempo?”; dopo una lunga pausa la frase si completerà con la richiesta di quanto tempo necessiti Louis prima di poter raggiungere i familiari per il dolce. Ma la staticità dei corpi, la tensione impalpabile della scena e la colonna sonora rimandano alla capacità della donna di percepire il tormento di Louis.

Il confronto con la figura materna si compie nel simbolico spazio appartato della depandance, in cui la donna nasconde le sigarette. Un incontro privato, nato da un segreto, fondato su un amore intimo, silenziosamente incondizionato. L’amore di una madre, per cui nulla varrà affinché venga meno. Qui un abbraccio compensatorio di lunghe mancanze, fondate su un’assenza non ineccepibile, ma per Louis necessaria. Anche da quest’amplesso il ragazzo vorrebbe liberarsi: guarda fuori dalla finestra, forse desideroso di libertà, forse in attesa di spiccare il volo. Qui il ritorno del tema dello schermo come finestra sul mondo: Louis sembra inizialmente guardare in macchina; un raccordo di sguardo ci mostra la finestra di cui si è detto. Ecco la sovrapposizione e contiguità tematica tra schermo e finestra. Ancora una volta, oltre l’inquadratura si trova la libertà.

Infine, il dialogo con il fratello si svolge nell’unico spazio esterno ma altrettanto confinato: l’automobile. La posizione in cui l’ambiente costringe i personaggi marca l’impossibilità dei due di guardarsi negli occhi ed essere sinceri l’uno con l’altro. La discussione si trasforma in un litigio, a senso unico a svantaggio di Louis, in cui il non detto esplode nella dolorosa consapevolezza della lontananza emotiva dei due fratelli, dell’incomprensione reciproca che caratterizza la loro relazione vuota.

Juste la fin du monde (2016)

Un elemento squisitamente dolaniano è la presenza delle scene in stile videoclip. Il sentimento profondo dell’amore, prima in una scena di sesso e poi in una familiare, ci viene nuovamente restituito attraverso l’intimità del rallenti e le delicate note di Gabriel Yared, già collaboratore del regista. Ciò che crea uno scarto rispetto alle opere precedenti è la collocazione temporale di tali sequenze. Se da J’ai tué ma mère fino a Mommy i momenti musicali funzionavano come estensione del tempo, in Juste la fin du monde ne rappresentano un’astrazione. In altre parole, nei film precedenti il momento musicale lasciava progredire lentamente l’azione, rendendo estatici degli istanti di vita presenti. In quest’opera, invece, le scene in stile videoclip, sempre gremite di energia e vitalità, sono esclusivamente relegate ai flashback. Il presente diegetico è prigioniero di un tempo asfissiante e prossimo alla morte. Non vi è né spazio né tempo per la vivacità, tutta racchiusa nel luogo mentale dei ricordi. 

In Juste la fin du monde Dolan pone le sue qualità registiche al servizio del testo. In primis, è riconoscibile la sua cura dei dettagli. Si pensi ai colori: la loro selezione e modulazione rimane materia di primaria importanza; ma, se in precedenza le scelte cromatiche aggiungevano significato al testo (vedi Les amours immaginers in cui l’associazione di un colore ad un personaggio diceva di più sulla personalità dello stesso, o ancora, la complementarietà dei colori in natura segnava effettivamente il tipo di relazione tra i personaggi), in Juste la fin du monde il legame tra un personaggio ed un colore non fa altro che rimarcare la sua posizione nella storia. Per spiegare questo concetto: il colore preponderante del film è il blu. Questo colore rappresenta idealmente l’anima di Louis e figurativamente ci rimanda al colore dei suoi occhi, nonché, e questo è importante, del suo abbigliamento. Il blu è il colore della calma, dell’interiorità e dello spirito.

Tutte le relazioni tra i personaggi esistono in funzione di Louis, tutto il film si fonda sul rapporto che ognuno di loro costruisce con il protagonista. Ed ecco quindi che i colori vengono posti al servizio di tale dinamica: ogni personaggio presenta un dettaglio o un capo d’abbigliamento di colore blu, che lo lega concettualmente a Louis. Dunque, in ognuno di loro il blu viene affiancato da un altro colore, in relazione alla loro tendenza emotiva. Quindi, il trucco e gli accessori di color blu elettrico sul corpo della madre sono abbinati ad un vestito rosso acceso, simbolo della passione, della forza e dell’amore materno, nonché del legame di sangue tra i due. Ancora, sui capi d’abbigliamento della Seydoux il blu viene associato al giallo, colore che rimanda alla vitalità, all’energia e all’immaginazione propri del personaggio della sorella. Così, la presenza del blu in Cate, la cognata, si affianca al colore rosa, simbolo di una propensione affettiva, dolcezza, delicatezza e comprensione. Non è difficile riconoscere in queste descrizioni i tratti caratteriali dei personaggi e la posizione che assumono in relazione a Louis.

Un lavoro di particolare interesse è quello svolto con la luce. Le fonti luminose nel film hanno sempre una provenienza esterna, mistica, spirituale. L’illuminazione sul volto di Louis rimanda ad una dimensione altra, valica il confine della materia. È un uso della luce metafisico, che sembra astrarre il personaggio, portandolo in una dimensione sottratta alla realtà, facendo di lui un fantasma. Così, quando nella scena finale si scaldano gli animi, Louis deve improvvisamente lasciare la casa per adempiere al suo appuntamento, la luce cambia. Un’illuminazione calda uniforma e infiamma tutta la sequenza. Siamo alla resa dei conti, la scena si svolge già all’inferno.

Qui suo fratello si adira regalando alla macchina da presa un primo piano esplosivo. A nostro avviso l’inquadratura di Vincent Cassel, in primissimo piano, sguardo in macchina, il pugno affianco al volto che sembra voler rompere lo schermo e andare oltre esso, è l’unica che richiama quella qualità di estasi del cinema di Dolan. Estasi intesa secondo il suo significato etimologico di “uscire fuori da sé”: quell’immagine non solo cerca di andare oltre lo schermo, rompendo la quarta parete con lo sguardo e dando l’impressione di volerla colpire fisicamente, ma rimanda ad un discorso metacinematografico citando le inquadrature del film L’odio del 1995 (Mathieu Kassovitz) interpretato dallo stesso Cassel.

Dolan cura magistralmente la scena e la scenografia. Un tratto figurativo ricorrente è il tema floreale, che ritroviamo sulla carta da parati della casa, sui vestiti dei personaggi e tatuato sul corpo della Seydoux. Fiori che rimandano forse al tema mortuario, fiori funebri, simbolo di un addio. In contrapposizione a quelle farfalle che decorano le pareti della sala d’ingresso della casa: farfalle che simboleggiano la libertà, la vita, la possibilità di volare. 

Il volo rappresenta la vita. In molte culture gli uccelli sono considerati intermediari tra due mondi, tra la vita e la morte. È questa la dimensione in cui si situa l’anima di Louis, all’interno di un limbo. Louis è come un volatile in gabbia che si muove costretto in uno spazio, guardando all’infinità del cielo, desiderando la libertà. Quell’uccellino intrappolato nell’orologio a cucù rappresenta il suo stesso spirito, intrappolato nell’attesa della fine; costretto a vivere all’interno del tempo, perché solo quando questo sta per scadere se ne riesce a percepire lo scorrimento. Un uccellino che alla fine diventa reale, liberandosi dalla gabbia dell’orologio, cercando la libertà in volo, ma trovandosi ancora in trappola all’interno di una camera senza uscite, per poi morire emettendo il suo ultimo respiro. Proprio in quella camera, dinnanzi alla morte simbolica di quell’animale, lasciato solo dalla famiglia ed elevato ad una dimensione astratta dall’intensità dell’illuminazione, Louis è pronto per il suo appuntamento: da un’ultima occhiata alla vita emettendo il suo ultimo respiro, poi si volta e senza ripensamenti si incammina verso l’esterno, inglobato da quella luce che lo accoglie solo alla fine del mondo.

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