#XavierDolan: Mommy (2014)

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Mommy (qui il trailer) è il film che nel 2014 ha condiviso il Premio della Giuria a Cannes con l’Adieu au langage di Godard. Venticinque anni, cinque film all’attivo e qualche candidatura alle spalle, Xavier Dolan viene giudicato al pari di Jean-Luc Godard, ottantaquattro anni, più di sessant’anni di attività e esponente di spicco della Nouvelle Vague. Non sono pochi, oltretutto, i critici che associano la poetica del giovane regista a quella del grande maestro francese, ma pare che Xavier sia ostinato a negare una tale eredità. Il regista franco-canadese ama definirsi un’autodidatta, formatosi a casa, sulle sequenze del Titanic di James Cameron.

Che i due autori siano paragonabili o meno, che esista o no un filo conduttore tra le loro regie, Mommy è un grande film. Si tratta dell’opera con la quale Dolan raggiunge la sua maturità poetica, in cui il suo stile si vien formando in maniera organica, in una regia senza lacune, una presa di posizione cosciente nel panorama cinematografico odierno. Candidato anche alla Palma D’Oro, Mommy è un film sperimentale. Dolan è un regista d’avanguardia e con quest’opera reinventa il linguaggio cinematografico. In particolar modo, sono sperimentali l’uso della musica e del formatoIl medium è il messaggio, scriveva Marshall McLuhan. Per Dolan, il formato è il messaggio (ed il significato di questa frase non differisce neanche tanto da quello dell’originale).

In questo testo sarà inevitabile la presenza di spoiler, in assenza dei quali sarebbe impossibile scardinare il significato ultimo dell’opera. Mommy è la storia di una madre e di un figlio, entrambi problematici, entrambi incapaci di adempiere ai loro ruoli affettivi. Il ragazzo, Steve (sedici anni), è affetto da un disturbo oppositivo provocatorio, ha un carattere aggressivo se irritato e soffre di un morboso ed edipico attaccamento alla madre, di natura quasi incestuosa. Diane, detta Die, è una donna superficiale ed irresponsabile, veste in modo molto appariscente e cerca di tirare avanti in una vita priva di ambizioni. Diane non è capace di essere una madre e tanto meno di gestire un figlio problematico come Steve. Il ragazzo è stato chiuso in riformatorio, finché, e qui inizia l’intreccio del film, viene cacciato dall’istituto per aver appiccato un incendio, e Die è costretta a riprenderselo. Tra i due sarà molto difficile costruire un equilibrio, ma a questo converrà l’arrivo di un personaggio femminile, Kayla, un’insegnante balbuziente in anno sabbatico, grazie alla quale Dolan costruisce quella relazione triangolare cui è affezionato già dalla sua seconda opera. 

Il tema materno, si è visto in tutta la filmografia, è molto caro al regista. Tuttavia, fu lo stesso Xavier a dichiarare che se in J’ai tué ma mère sentiva di voler punire la madre, per mezzo di Mommy cerca di farla vendicare. La madre, come nel primo film, è interpretata da un’eccelsa Anne Dorval. La sua performance risulta impeccabile, necessaria e viscerale. L’attrice conquista lo schermo, cattura l’attenzione. La sua recitazione, così intima e profondamente umana, rende amabile il personaggio anche quando le sue azioni indurrebbero a detestarla. Steve è interpretato da Antoine Olivier Pilon, classe 1997, volto non ancora molto noto sui grandi schermi. Questo giovane attore regge a pieni voti il confronto con l’abile Dorval. Anzi, divide con lei lo schermo e lo penetra grazie all’espressività del volto e l’energia esplosiva del suo corpo. Le smorfie che Pilon, in primi piani strettissimi, offrirà alla macchina da presa fanno del suo volto un terreno fertile di sperimentazioni. Infine, Kayla è interpretata da Suzanne Clément, attrice feticcio del regista, insieme alla Dorval, bravissima nel ruolo di una donna segretamente ma apparentemente problematica.

Il film si apre con delle didascalie che informano lo spettatore dell’introduzione, dal 2015, di una legge (fittizia) in Canada, grazie alla quale in casi di emergenza è possibile chiudere i minori in ospedali psichiatrici senza prescrizione medica. Un futuro prossimo e possibile, quindi, quello in cui Dolan costruisce la sua narrazione.

Le prime immagini: una mela attaccata al ramo ripresa in dettaglio. Luce chiara e diffusa. Atmosfera idilliaca. Una mano coglie il frutto. Appartiene alla bella e giovane Diane, assorta nel suo mondo delle favole. Ci ricorda quasi la Dorval della sequenza onirica di J’ai tuè ma mére, nella quale corre nel bosco col suo abito da principessa. Una scena senza contesto, quella di Mommy, una scena senza storia, che tuttavia racconta qualcosa. Diane, nel suo mondo ingannevolmente tranquillo, coglie l’oggetto biblicamente simbolo della proibizione, della discordia e delle gioie effimere. Dopo pochi frame passiamo dal giardino paradisiaco ad un infernale strada cittadina; un incidente stradale vede Diane coinvolta e leggermente ferita. Nello stesso momento riceve una chiamata; è il riformatorio, deve andare a prendere Steve. I tempi dell’Eden di una madre riluttante sono finiti.

L’infermiera cerca di spiegare a Diane che l’amore non basta per salvare un figlio e le ricorda dell’esistenza della nuova legge sugli ospedali psichiatrici. Ma Diane, nonostante sia consapevole della sua inadeguatezza nel ruolo di madre di Steve, ha speranza. Lei spera, ingenuamente, di poter gestire il ragazzo. “Gli scettici dovranno ricredersi” dice all’infermiera, con un’espressione in viso che è già dichiarazione della grandezza della performance che offrirà la Dorval.

Il film, si è detto, è privo di lacune. Nessuna scena risulta accessoria e tanto meno ridondante. Motivo per cui è necessario selezionare alcune scene chiave e, con dispiacere, tralasciarne molte altre. Le immagini più esplosive sono quelle d’amore o di contrasto tra i personaggi. Uno dei primi istanti in cui i sentimenti eccedono l’inquadratura è quello dell’inammissibile bacio. Per Diane è un brutto momento: a causa dell’arrivo di Steve ha appena perso il lavoro ed il figlio tenta di consolarla.  Qui un bacio tra madre e figlio, un bacio infantile e proibito. La mano di Steve si frappone tra le sue labbra e quelle di Diane. L’immagine di un incesto trattenuto, di un amore illecito. Siamo ancora all’inizio della storia, c’è ancora speranza. C’è ancora l’illusione di una normalizzazione del loro amore tossico. Questa scena, il cui frame è divenuto il più famoso del film, è speculare a quella in cui tale pudore non ci sarà più. Verso la fine, infatti, il peccaminoso atto prenderà forma. Il bacio non avrà più barriere e la speranza di salvezza inizierà a vacillare.

Con l’arrivo di Kayla si crea un gruppo familiare in perfetto equilibrio. Die invita per la prima volta l’insegnante e vicina di casa a cena, la regia costruisce visivamente il rapporto triangolare che si instaurerà tra i personaggi. Come gli avevamo visto fare in precedenza, Dolan compone una geometria visiva posizionando i tre introno al tavolo da pranzo. Kayla, al centro, stempera la palpabile tensione tra madre e figlio. L’insegnante rappresenta una madre ideale in contrapposizione all’incapacità di Diane di gestire Steve.

In particolare, due sequenze in cui il conflitto raggiunge toni sinistri rappresentano quest’attitudine relazionale. Nel primo caso si tratta di un litigio tra Steve e Diane. Quest’ultima accusa il ragazzo di aver rubato degli oggetti, lui nega e si infuria per il rimprovero. Diane cerca di calmarlo rapportandosi a lui in maniera stucchevolmente affabile. Steve sta avendo una delle sue crisi aggressive ed infatti il litigio sfocia nella violenza. I due si fanno del male, Diane fugge e si nasconde. Lei non è in grado di gestire il ragazzo ed ha paura di lui. La macchina da presa a mano scandisce ed enfatizza la veemenza della scena.

Secondo conflitto, tra Steve e Kayla. Mentre questa cerca di insegnare al ragazzo la matematica, lui è distratto, gioca, inizia a sfotterla. La prende in giro per la sua balbuzie e le strappa dal collo un accessorio caro. Kayla non si spaventa, non si ritrae, la sua rabbia cresce. Al contrario di Diane, lei non sa di cosa sia capace Steve quando si agita. Perciò non lo teme e lo affronta. La donna domina Steve, lo ferisce nel profondo ripagandolo con la stessa moneta. Il ragazzo impietrisce, piange, si arrabbia, quindi le chiede scusa. Steve può essere aiutato, è un bravo ragazzo afflitto da gravi problemi psichici. Ma l’amore materno non basta e Diane è troppo fragile, troppo instabile per questo compito. Steve e Die si amano ma possono solo danneggiarsi l’un l’altra. Nel corso di entrambe le sequenze lo spettatore rimane pietrificato, attonito, ipnotizzato dall’alto grado di seduzione delle inquadrature. L’alta tensione è palpabile in ogni atto. La violenza (per autodifesa) della madre sul figlio. La vicinanza carnale del volto di Kayla, una donna quasi estranea, ad un ragazzino di sedici anni. Il fattore maggiormente catalizzante di questi momenti è la recitazione. Le emozioni dei personaggi cambiano progressivamente, i sentimenti crescono sui loro volti. La paura per Diane e l’ira per Kayla. Le già citate smorfie di Pilon, il suo volto-marionetta: le espressioni buffe e quelle di collera. Nonché l’energia corporale dell’attore. 

Per concludere questa sezione: madre e figlio non possono aiutarsi a vicenda, non riescono a cambiarsi. Si fanno del male. Al contrario accade tra Steve e l’insegnante, dopo il loro avvicinamento si modificano a vicenda. Lei diventa più intrepida, lui più disponibile. Questo duo si fa del bene.

Gli elementi fondamentali che caratterizzano il film sono due: la colonna sonora ed il formato. Quindi, nonostante gli elogi nei confronti degli attori e della narrazione, è l’audace tecnica di Dolan a rendere memorabile Mommy. La musica gioca un ruolo di primo piano in tutte le opere del giovane regista. Mommy offre scene spettacolari in cui i corpi iconici dei personaggi fluttuano sulle note di canzoni popolari. Come il momento che segue la prima serata insieme del nuovo trio familiare. Steve si trucca ed inizia a ballare sulle oscillazioni di On Ne Change Pas di Céline Dion. Diane lo segue; assistiamo ad un ballo passionale, quasi erotico, tra madre e figlio. Kayla si lascia andare ed inizia a cantare. La cinepresa si allontana donandoci un totale delle tre figure danzanti, scoordinate e libere. 

Tuttavia, quello che colpisce della colonna sonora non è solo la bellezza e il valore culturale dei brani scelti da Dolan, ma l’uso che ne fa. In più momenti del film il missaggio sovrappone due musiche diverse. Lo vediamo all’inizio, quando, Diane in una camera e Steve nell’altra, accendono gli stereo e due canzoni di generi completamente opposti si accavallano diegeticamente. Ancora, nella succitata scena di conflitto con Kayla, Steve, beffandosi di lei, balla sulle note della canzone pop Blue (Da Ba Dee) degli Eiffel 65. Quando, dopo la reazione della donna, l’adolescente non riesce più a muoversi ed inizia a piangere, una musica triste si sovrappone progressivamente alla prima. Ma Blue non svanisce del tutto: la sua dissolvenza in uscita si accavalla a quella in entrata della seconda canzone, rimanendo in sottofondo. In concomitanza, dunque, ritroviamo un brano intra-diegetico ed uno extra-diegetico. Quest’ultimo è espressione dei sentimenti di Steve. Con la stratificazione delle due musiche siamo ancora nella camera con il ragazzo e allo stesso tempo all’interno della sua mente.

In una delle scene in stile videoclip di Mommy (la cui massiccia presenza è un tratto distintivo della regia di Dolan), Steve è per strada sul suo skateboard, gioca facendo ruotare attorno a sè un carrello mentre la telecamera gira intorno a lui, infine torna a casa volando sullo stesso carrello. Durante la sequenza il ragazzo ascolta la musica attraverso le cuffie. In sottofondo una canzone dai toni drammatici: Colorblind dei Counting Crows. Ma quello che risuona nelle cuffie di Steve non è lo stesso brano. Ce ne accorgiamo grazie ai movimenti che fa: balla su un ritmo totalmente diverso da quello che percepisce lo spettatore. Nella versione in lingua originale è possibile sentire il ragazzo che canta a bassissima voce le parole della canzone che ascolta. Un altro buon motivo per non guardare il film doppiato ce lo offre una scena in cui Steve partecipa al karaoke e sceglie di cantare Vivo per lei di Andrea Bocelli. Pilon intona il testo in un italiano fascinosamente francese ed i nostri doppiatori hanno scelto di intervenire brutalmente anche su quel pezzo (per motivi logistici legati alla voce del personaggio). In Mommy i momenti musicali risultano necessari, indispensabili per l’andamento ondeggiante del film. Lo stesso Dolan li ha definiti “il respiro del film”; ovvero momenti di pausa dal rumore, dalle crisi e dalle urla eccessive.

Il testo di Colorblind è rappresentativo per il discorso che verrà affrontato in relazione al formato. Il brano intona “pull me out from inside. I am ready. I am fine” (fammi uscire da qui dentro, io sono pronto, sto bene). L’inside della canzone è quell’interiorità ossessivamente chiusa in sé stessa, quella prigione emotiva in cui è costretto Steve. Ma queste parole lui non le può ascoltare, in quel momento nelle sue orecchie risuona altro. Steve non è ancora pronto e non sta bene, non può liberarsi delle sue gabbie interiori.

Ecco dunque che il tema musicale intreccia quello del formato. Le scelte di Dolan a tal riguardo sono del tutto sperimentali. Innanzitutto, sceglie di rendere tutto il film nell’insolito formato 1:1 (non si è usato il termine “girare il quel formato” in quanto la tecnica utilizzata sia stata un intervento di riduzione in postproduzione, grazie all’uso di bande nere laterali). In primo luogo, il formato utilizzato costituisce una rarità al cinema, ma è lo stesso che siamo abituati a vedere sui nostri piccoli schermi. È il formato delle immagini su Instagram; è una scelta registica che partecipa all’assetto visivo fotografico del nuovo panorama tecnologico. È un tipo di immagine con cui siamo soliti interagire. Tuttavia, il frame quadrato è una questione poetica che, ancora una volta, si lega profondamente alla soggettività dei personaggi. Tutti loro sono chiusi, costretti nelle loro vite, impossibilitati a liberarsi dai macigni. Il formato li stringe e li costringe nello spazio. È un’inquadratura claustrofobica che rimanda all’idea di internamento e mancanza di libertà.

Detto ciò, la scelta più audace, grazie alla quale Mommy ha riempito riviste, libri universitari e dibattiti tra cinefili, è quella di modificare il formato durante il film. L’aveva già fatto, in Tom à la ferme: aveva stretto l’inquadratura nei momenti di massima tensione. Ma questa volta è un personaggio ad interagire con lo schermo e a modificare il quadro. Potrebbe non essere casuale il legame tra la forma dell’immagine, che è presente perlopiù sulle piattaforme social, quindi sugli schermi interattivi, e la possibilità di influire su essa, di poterla toccare. Partecipando alle sperimentazioni tecnologiche che via via vengono intraprese dai registi contemporanei più hardcore (siamo nell’anno di uscita dello stesso Hardcore! di Ilya Naishuller), Dolan fa compiere ad un suo personaggio un gesto che il cinema non aveva mai visto prima.

Un’altra scena stile videoclip coinvolge anche le due donne, siamo alla metà del film, nel momento in cui le cose sembrano andare per il meglio. Steve, mentre corre sul suo skateboard al centro della strada, apre letteralmente l’inquadratura. Spalanca il formato da un 1:1 a un 1,85:1, urlando al vento la parola “libertà!”Steve si svincola da quella sensazione di claustrofobia, apre le braccia e si sente per la prima volta libero. Libero da sé stesso, libero dalle mura di una prigione. Anche qui possiamo avanzare una considerazione sulla relazione tra formato e tecnologie. Ci chiediamo: aprire l’inquadratura da un formato “da piccolo schermo” ad un formato cinematografico corrisponde forse a dichiarare limitativa la nuova forma di visione, e quindi di conoscenza, ed auspicare ad un ritorno all’arte tradizionale, cioè al cinema, come sinonimo di libertà, di verità? Se una tale lettura sia effettivamente nelle intenzioni del regista non è possibile saperlo. Ad ogni modo, il respiro dato da questo ampio formato dura poco. L’inquadratura si stringe nuovamente quando, in un momento di festa, Diane riceve una lettera dal tribunale per l’incendio causato dal figlio. Successivamente, avremo un’altra apertura a 1,85:1. Si tratta si una sequenza onirica, una serie di scene spettacolari, fuori fuoco, sulle note di Ludovico Enaudi, in cui visualizziamo una fantasia utopica di Diane sul futuro di suo figlio.

Il finale del film è drammatico. Steve ha provato a tagliarsi le vene. Diane decide di favorire della nuova legge e chiuderlo in un ospedale psichiatrico all’insaputa del figlio. Le cose accadono velocemente. Una scena straziante quella in cui il ragazzo viene lasciato all’istituto. Passa del tempo. È chiaro che senza di lui non esista più il nucleo familiare e che vi sia un allontanamento tra le due donne. Diane ha dovuto prendere questa decisione perché spera sia la via giusta per salvare il figlio. Ma Steve non riesce a vivere come un prigioniero e decide di morire. Sfugge dalle grinfie degli infermieri, corre lungo un corridoio e si lancia da una finestra. Lui ha bisogno di libertà, la cerca, la brama. Ha provato a conquistarla attraverso il gesto iconico di aprire manualmente quel formato che rappresenta la reclusione interiore del suo essere. Ma non è bastato. Alla fine ha dovuto distruggere quel quadrato lanciandosi da una finestra, rompendo i vetri, distruggendo lo schermo del quale era prigioniero. Una scena dolorosa ed emotivamente insopportabile resa a rallenti con in sottofondo il brano Born to Die di Lana del Ray. Nato per morire, dunque. Ma Dolan vuole comunicare molto più di questo: Die è anche il soprannome di sua madre. Steve è nato per stare insieme alla sua mamma, o insieme a nessun altro.

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