Non essere cattivo: l’ultimo miglio di Claudio Caligari

Arriva su Netflix e torna (finalmente) al centro delle discussioni sul cinema italiano Non essere cattivo (trailer), ultimo film di Claudio Caligari, morto a 67 anni nel 2015. La pellicola costituisce una sorta di testamento cinematografico del regista, in una carriera attraversata da continue delusioni e pochi riconoscimenti.  

Dopo un inizio nel cinema documentaristico di stampo politico e sociale (che fotografava la problematica realtà delle borgate nel tumultuoso periodo post ’68), Caligari dirige Amore tossico (1983), portando la sua indagine sociale anche nel cinema di finzione. La caratteristica che contraddistingue il suo esordio cinematografico (e che per certi versi costituirà il principale ostacolo alla sua carriera, per le implicazioni politiche e produttive che comportava) è la sua attitudine spiccatamente neorealista, figlia della poetica di Pasolini, che continuamente riprende e omaggia sia all’interno dei suoi film, che in molte interviste.

Essa è evidente sia nella lavorazione della sceneggiatura, che si prendeva la licenza di rimaneggiare più e più volte liberamente, con la collaborazione di chi frequentava lo spaccato sociale che metteva in mostra, sia nella scelta degli attori. Caligari ricercava, infatti, il naturalismo negli attori non professionisti, presi dai contesti che raccontava: essi stessi, ad esempio, erano realmente dei tossicodipendenti, con le conseguenti difficoltà logistiche che comportava gestirli (crisi di astinenza sul set, malori, arresti…). Il film esce dopo due travagliati anni e ottiene un’esigua distribuzione, nonostante un discreto riconoscimento della critica (premiato ai festival di Venezia, Valencia e San Sebastian).  

Dopo un incoraggiante inizio, però, un vuoto sconcertante attraversa sedici anni della sua filmografia prima di arrivare alla seconda opera. Scrive diverse sceneggiature che non gli saranno mai prodotte, nonostante fossero già precorritrici di alcune tendenze successive (come, ad esempio, il pulp pre-tarantiniano in Suicide Special), a causa dell’incomprensione dei produttori. È il 1998 quando esce il suo secondo lungometraggio, L’odore della notte, con il quale torna nuovamente a scavare nel sottobosco della criminalità romana, muovendosi all’interno del genere poliziottesco. Nel 2001, l’ennesimo progetto che non va in porto: Anni rapaci, tratto dalle confessioni di un pentito della ‘ndrangheta sulla malavita nel settentrione, viene finanziato ma non entra mai in produzione.  

Quattordici anni dopo, in seguito a tutte le delusioni, le porte in faccia, gli ostacoli, decide di mettersi al lavoro per un altro film, supportato alla produzione dal collega e grande amico Valerio Mastrandrea, che fa di tutto per riportarlo sul set, provando addirittura a coinvolgere tra gli altri Martin Scorsese, in una lettera aperta al Messaggero (3 ottobre 2014). Caligari era un grande estimatore del regista americano, con cui riscontrava delle affinità poetiche: basti pensare alla somiglianza tra i due protagonisti di Non essere cattivo e quelli di Mean Streets, o a come parla di Taxi Driver (<<semplicemente perfetto come rappresentazione di un uomo alienato dal resto della società ed in grado, con la sua follia, di descrivere le caratteristiche e la patologia della società stessa>>, essenzialmente si potrebbe dire lo stesso dei suoi personaggi).

Sfortunatamente, Scorsese non rispose mai a questa chiamata, ma il clamore che questa ebbe senza dubbio smosse le acque per sostenere la produzione del suo ultimo film. Il 26 maggio 2015, a lavorazione quasi ultimata, Caligari muore dopo un lungo periodo di malattia e il film esce postumo, ottenendo numerosi premi e candidature, tra gli altri, ai David di Donatello, al Nastro d’Argento, e al Festival di Venezia. Non essere cattivo corona la sua poetica, ripesca le ambientazioni, alcune scene e le tematiche di Amore tossico. Ritorna la droga (non più l’eroina, ora le pasticche), la periferia e gli accattoni di pasoliniana memoria. È la storia di un’amicizia, tra Cesare (Luca Marinelli) e Vittorio (Alessandro Borghi), che crescono in una borgata di Ostia nel 1995, tra crimini, dipendenze e giri sbagliati, in un ambiente in cui sei costretto a essere cattivo e “fottere” il prossimo per salvare te stesso.  

In un momento del film, Cesare pronuncia una frase emblematica all’amico: <<A Vitto’, ‘a vita è dura e si ‘n sei duro come ‘a vita non vai avanti>>, convinto che nel degrado si galleggia solo se ad affogare è qualcun altro; in questi ambienti non si tratta di vivere, sperare, sognare, ma solo di sopravvivere, perché sei condannato già dalla nascita. Pochi, una volta intraprese scelte tossiche per la propria vita, riescono a cambiare e riprendere in mano il loro destino, in maniera legale e umile. Ci prova Vittorio, che dopo aver assunto delle pasticche, sperimenta delle allucinazioni da bad trip e decide a quel punto di smettere con la droga e trovare un lavoro. Trovando da guadagnare in un cantiere, cerca di salvare anche l’amico fraterno, rendendosi però conto che egli, al contrario suo, non vuole e non riesce a “non essere cattivo”.  

Cesare è un prodotto del disagio, con alle spalle una situazione economica e familiare tragica, e in un ambiente in cui le regole e lo Stato non esistono, l’abuso di droga e violenza sono una valvola di sfogo ed oblio dalle proprie frustrazioni. Vittorio è altrettanto un ragazzo cresciuto in questo scenario disperato e vorticoso, che ti risucchia nella spirale dell’autodistruzione, ma vuole prendere una via diversa, anche grazie al salvifico amore per Linda.  

Un’esistenza onesta in questa realtà, però, sembra essere impossibile. Quand’anche cerchi di dimenticare la vecchia vita, la povertà e la miseria fanno riemergere lo spettro dei guadagni facili ma sporchi, che rischiano di corrompere anche l’anima pura e ingenua del figliastro Tommaso, ma che potrebbero permettergli però di vivere dignitosamente e non sopravvivere. È una minaccia continua e sempre costante quella del male e della morte, da cui è difficile sfuggire, e l’alternativa (se c’è davvero) è comunque infelice; uno scenario senza dubbio pessimista, nonostante alla fine il regista voglia inserire, in un’ultima inquadratura, un barlume di luminosa speranza negli occhi di un bambino: è possibile cambiare?  

I due interpreti forniscono delle prove emozionanti, palpabili, modellano il proprio volto e la propria fisicità come degli scultori con l’argilla. I loro occhi si allargano e fissano profondamente, le narici si dilatano e i corpi si scontrano e si intrecciano tra loro. Lo spettatore non viene sedotto da queste figure, ma nemmeno le giudica: quel che Caligari sente l’esigenza di raccontare è invece un ritratto umano, poco consolatorio, di un mondo di degrado vissuto da irrecuperabili, con un impegno sociale che da sempre ha caratterizzato la sua attività, e che forse ha irrimediabilmente compromesso la sua carriera. 

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