#Venezia80: Making of, la recensione del film di Cédric Kahn

Making of recensione

Un uomo alla guida di un’auto sfonda i cancelli di una fabbrica, irrompendo al suo interno e, insieme ad un gruppo di operai rivoltosi, la dichiara occupata. Così inizia il nuovo film di Cédric Kahn, Making of, e dello stesso protagonista, anch’esso un regista.

Kahn, infatti, dopo aver presentato quest’anno al festival di Cannes Le Procès Goldman, arriva adesso all’80° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia con Making of, fuori concorso. Questo film meta-cinematografico porta lo spettatore all’interno di tre storie, perfettamente interconnesse l’una con l’altra: una sul regista Simon (Denis Podalydès), alle prese con la realizzazione del suo film, una di rivolta operaia in cui i personaggi tentano di impedire la delocalizzazione della fabbrica in cui lavorano, e una sul making of di tale film, affidato ad un giovane aspirante regista (Stefan Crepon). Il lavoro di Simon, tuttavia, non procede certo senza ostacoli: problemi di produzione, mancanza di fondi e litigi sul set mettono a rischio la realizzazione del film, tanto da costringere la troupe a decidere se proseguire o meno le riprese.

La pellicola non può che rientrare nella categoria dei “film sui film”, di cui si può certamente ricordare fra tutti il celebre Effetto notte di François Truffaut. Tuttavia, mentre quest’ultimo è un viaggio alla scoperta della finzione cinematografica, Making of è più interessato ai suoi protagonisti e ai problemi sociali che essi vivono, alle loro storie e ai loro desideri, lasciando il cinema sullo sfondo (ma non troppo). Kahn costruisce dunque una commedia tagliente, orientando il focus sull’industria dello spettacolo e la sua relazione con la società. Non è un caso quindi che il gruppo di operai ideato da Simon possa essere sempre più progressivamente accostato alla troupe che lavora con lui: vengono riprese le divisioni interne, la speranza di poter effettivamente trovare una soluzione e difendere il loro futuro e i problemi personali di ciascuno. Un set cinematografico, dopotutto, può essere visto come una sorta di microcosmo in cui riscontrare le differenze e i problemi della società.

Nonostante la premessa interessante, il film di Cédric Kahn non convince del tutto. Costruito come un ibrido tra commedia e dramma, non riesce ad essere incisivo su nessuno dei due aspetti: poche battute di spirito – salvo, forse, gli scambi tra Simon, la produttrice Viviane (Emmanuelle Bercot) e il produttore esecutivo (Xavier Beauvois), in perfetto stile Boris – e una scarna immedesimazione nei personaggi. A questo aspetto va aggiunta l’eccessiva durata dell’opera, divisa in tre atti (riprendendo il modello classico della struttura narrativa cinematografica) e articolata in due ore, ma che, tuttavia, esaurisce presto il suo messaggio, lasciando il resto del film ad un ritmo troppo lento per far sì che lo spettatore riesca a mantenere il proprio interesse fino alla fine.

Un’occasione sprecata, forse, per il regista francese, che, nonostante abbia voluto presentare temi e personaggi molto profondi, non riesce a trovare la ricetta giusta per un grande film. 

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