#RomaFF17: Houria, la recensione del film di Mouina Meddour

Presentato in concorso nella sezione Progressive Cinema della 17esima edizione della Festa del Cinema di Roma, Houria (trailer) è l’ultimo lungometraggio di Mouina Meddour, che dopo il poco riuscito Non conosci Papicha ci offre un nuovo ritratto dell’Algeria, questa volta spostato nel presente e non più negli anni ’90. Ma procediamo per gradi. Houria (Lyna Khoudri) è un ballerina, la danza sembra essere tutta la sua vita, lo spazio in cui può affermare sé stessa. Ma ad essa dovrà ben presto rinunciare dopo essere stata vittima di un episodio di violenza da parte di un ex-terrorista islamista pentito.

Il risultato è anche una perdita di controllo sul proprio corpo: una caviglia rotta, la perdita della voce. Le menomazioni fisiche la portano a conoscere una serie di donne che si sono dovute confrontare con traumi di vario genere nel corso della loro vita e le cui conseguenze (fisiche e psicologiche) sono ancora ben visibili. Chi ha perso i propri figli durante un attentato terroristico negli anni ’90, chi è stata fatta prigioniera e oggetto di torture o ancora chi è rimasta orfana o è stata rifiutata dal marito perché a 23 anni non vuole avere figli. Il film inizia allora a prendere diverse strade contemporaneamente. Da un lato Houria che deve fare i conti con ciò che le è accaduto e riprendersi il proprio corpo, vedendo nella danza un luogo sacro. Dall’altro un costante richiamo agli attentati avvenuti negli anni ’90 durante la guerra civile, in quello che è stato definito come il Decennio Nero.

Eppure il presente non sembra offrire nuove opportunità né si ha l’impressione che dei cambiamenti siano avvenuti. Anzi, la violenza sulle donne e il maschilismo imperante continuano a dominare indisturbati; gli ex-terroristi pentiti e rilasciati perché “volevamo dimenticare e perdonare” continuano ad agire a piede libero. E in tutto questo la polizia agisce con indifferenza (anzi talvolta esercitando quella stessa violenza che dovrebbe prevenire), mentre le vittime non possono fare affidamento su nessuno, figurarsi essere tutelate. La Meddour delinea dunque un’Algeria dove il passato continua ad ossessionare un presente che degli anni ’90 e del suo tragico portato (quelli in cui il precedente film della regista era ambientato) sembra essere solo un prolungamento. In questa situazione sembrano esserci solo due possibilità: fuggire clandestinamente nella speranza di un futuro migliore oppure restare, resistere e non rinunciare a combattere perché “scappare non è una soluzione“.

Diventa chiaro come in Houria vi sia materiale per almeno tre diversi film e che la Meddour non sia in grado di gestire tutto quello che mette in scena. Al di là di qualche ripetizione (parte della sezione centrale è un continuo di momenti di difficoltà alternati ad altri di gioia con sottofondo canzoni italiane) e alcune frasi retoriche (“La vita è ora, non ho tempo da perdere“), sono le diverse questioni messe in gioco a rischiare di essere abbandonate a sé stesse, senza mai trovare un compimento. Fermo restando che ci sarà comunque qualcuno che ben presto si farà paladino del film perché mette in scena il linguaggio dei segni o perché mette in scena tematiche “importanti” . E mentre la regista sembra essere più interessata a lavorare sulle e con le emozioni primarie dello spettatore piuttosto che spingerlo realmente a riflettere, anche il corpo perde mano a mano la sua centralità. Sia che si tratti del corpo leso, sia del corpo in libertà nel momento della danza. Non che ci si aspetti uno sguardo intenso come quello di Abdellatif Kechiche o Claire Denis, per citare due registi che fanno del corpo un elemento centrale del loro cinema, ma nemmeno uno così timido che l’energia sembra reprimerla piuttosto che farla esplodere.

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