#Venezia80: Hit Man, la recensione del film di Richard Linklater

Hit Man

Ormai è ben chiaro quanto a Richard Linklater piaccia sperimentare. Con i generi, con i toni, con gli stili, quasi come se il regista americano volesse ad ogni film cambiare pelle, cambiare identità. Lo abbiamo visto immergersi in una storia sentimentale nella trilogia iniziata con Before Sunrise, affrontare il dramma familiare con Boyhood e ancora tentare incursioni nell’animazione con l’ultimo Apollo 10 e mezzo. Se c’è una cosa che non cambia, però, è una: la riuscita del risultato. Ed è proprio sulla mutevolezza della sua filmografia che sembra offrirsi quale metafora l’ultimo Hit Man, presentato Fuori concorso alla 80° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

Ispirata ad una storia vera, la trama del film vede al centro Gary Johnson, eccentrico professore di filosofia che per arrotondare collabora con la polizia nello sventare omicidi su commissione. Ad impersonarlo troviamo Glen Powell, carismatico attore salito alla ribalta con Top Gun: Maverick che qui firma (insieme a Linklater) anche la sceneggiatura. A lui è richiesta una prova interpretativa alquanto peculiare, dal momento che il film riflette fin dall’inizio sull’identità del suo protagonista.

A Gary Johnson, infatti, piace cambiare. Perché per impedire gli assassinii si finge anche lui un assassino, un killer di professione, il migliore sulla piazza, contattato dai più strambi e dissimili personaggi per far fuori chi di dovere, ogni volta assumendo un’identità e un travestimento diverso. Peccato che, a contratto siglato, ecco scattare le manette. Un giorno incontra però l’avvenente Madison (Adria Arjona), desiderosa di sbarazzarsi del marito violento. Le si presenta come Ron, dal carattere deciso e affascinante, e tra i due scatta subito qualcosa. Ma a quel punto che fare? Contravvenire al proprio dovere, dissuadere la donna dal delitto e iniziare con lei una relazione? E con quale identità?

Commedia, thriller, romance, a tratti noir poliziesco ma sempre con una pulsante vena ironica di fondo, Hit Man si presenta come un’opera polivalente al pari della figura di cui presenta i tratti, finendo immancabilmente per perdere una forma precisa e mescolare i volumi in modo da trovare un sorprendente equilibrio. Lo stesso equilibrio ricercato dal protagonista, che durante le sue lezioni di filosofia spiega paradigmaticamente agli studenti i concetti freudiani di Io, Es e Super Io. Gary è infatti un uomo schivo, solitario, a suo dire incapace di portare avanti rapporti interpersonali e quasi schiavo di se stesso. Ma quando entra in azione diviene presto in grado di improvvisare, di assumere il carattere più adatto alla situazione. È qui che interviene la funzione di Madison, che forza l’uomo a mantenere una di queste identità – una che gli aggrada e lo fa sentire apprezzato – in modo che quest’ultimo non sia più in grado di scindere la propria essenza dall’interpretazione.

Inevitabilmente, le cose sfuggiranno di mano al finto sicario. Ma non a Linklater, il quale accompagna la storia ad un bivio dopo l’altro e ad ogni svolta ne rinnova la posta in palio, ne arricchisce la dinamica. Lo stesso che fanno i dialoghi, sempre freschi, ben ritmati e spiritosi, i quali contribuiscono a dare spessore ai personaggi e a seguirne le sorti. Non sarà certo un cinema di indimenticabile profondità – come quello, magari, di precedenti pellicole dell’autore – ma Hit Man si rivela un prodotto di sicura riuscita, con una sceneggiatura ferrea ed una storia irresistibilmente divertente.

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