#Venezia80: Enea, la recensione del film di Pietro Castellitto

Enea

Nel 2020 a Venezia Pietro Castellitto esordiva nel mondo della regia, e lo faceva nel modo più sorprendente. Figlio d’arte (doppiamente), con I predatori raccontava in modo disincantato la contrapposta romanità di due famiglie, emblemi di due classi sociali e culturali come la borghesia e il proletariato. A distanza di tre anni il giovane regista torna al Lido con le spalle curve di aspettative, non più da outsider e forse non più da “figlio di”, firmando una pellicola ancora più personale e mettendo in scena un personaggio di cui rivela molti punti di contatto.

Enea racconta la storia del suo omonimo protagonista (Castellitto) e dell’amico Valentino (Giorgio Quarzo Guarascio), giovani appartenenti al mondo altolocato della capitale. Entrambi vivono in modo spossato il rapporto con la propria famiglia, disillusi e critici nei confronti del matrimonio borghese. Insieme portano avanti un ristorante di sushi, ma ancor più un giro di spaccio che coinvolge gli ambienti più esclusivi della vita notturna romana e che li vedrà incastrati in una trappola di violenza. Alle spalle di Enea – e alle spalle di questa sfumata storia di criminalità – si muove il mondo dei suoi affetti. Quello di un padre (Sergio Castellitto) affermato psicologo ma con problemi di rabbia; quello di una madre (Chiara Noschese) scontenta e vinta dai rimorsi del passato; quello di una ragazza bellissima (Benedetta Porcaroli) che lo ricondurrà agli stessi vincoli borghesi che dice di disprezzare.

A differenza de I predatori stavolta Castellitto appare molto più ambizioso, sceglie di giocarsi carte più pesanti, specie nei confronti della romanità di cui vuole fornire un affresco, che qui diviene quella delle classi agiate, dell’alta borghesia, dei figli di papà, delle feste sfrenate nelle ville più lussuose, di figli che non sanno cosa chiedere al mondo e di genitori che non sanno più cosa dare a quel mondo. Da una parte l’insofferenza di chi ha tutto e proprio per questo si muove come automa svuotato, e dall’altra l’insoddisfazione di chi è giunto ad un punto della propria vita in cui tutto ha il sentore della decadenza. In entrambi i casi i personaggi che popolano la storia sono “fuori posto”, vivono le situazioni quasi come a volersene sottrarre, senza mai averne l’energia necessaria.

Appaiono tutti stanchi, questi personaggi, e viene allora da chiedersi se Castellitto abbia già perso la vitalità eccentrica che aveva contraddistinto il suo primo film. Perché Enea non può fare a meno di lasciare sentimenti contrastanti, specie dopo un incipit accattivante, fatto di dialoghi mordaci e personaggi fuori dalle righe. La sensazione è che però con il passare dei minuti qualcosa vada storto, che la mano del regista si lasci sfuggire il controllo del racconto, come se fosse così concentrato a mostrare le proprie intenzioni ambiziose da perdere di vista la concretezza della narrazione. La sua è una regia che si compiace, che cerca in ogni momento di mostrare la propria bravura, la propria padronanza dello spazio e del mezzo. Il risultato però arranca, si fa fumoso, irretisce con le sue immagini ma smarrisce un po’ la strada da seguire. Quasi come se il film stesso, in definitiva, si fosse fatto contagiare dalla stessa aria decadente in cui vivono i suoi personaggi.

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