#Venezia80: Finalmente l’alba, la recensione del film di Saverio Costanzo

Finalmente l'alba

Con Finalmente l’alba (trailer) Saverio Costanzo porta a Venezia un film dall’apparenza inusuale, con un cast di stelle hollywoodiane che raramente oggi si incontra in una produzione italiana. In Concorso alla 80° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, il regista si immerge nuovamente nella storia degli anni Cinquanta (dopo la fruttuosa esperienza di L’amica geniale), con una storia che rievoca i perduti fasti di Cinecittà, popolata da giovani aspiranti attrici e inarrivabili stelle d’oltreoceano, ma anche dai più diversi e a volte ambigui personaggi.

L’intento di Costanzo parte da un noto fatto di cronaca nera avvenuto nel ’53: il ritrovamento di Wilma Montesi, una giovane di ventun anni, sulla costa del litorale romano. Il caso Montesi scosse fortemente l’opinione pubblica per le sue implicazioni, portando allo scoperto torbidi scandali legati al mondo della politica, del cinema e dell’alta società romana. Su tale riferimento storico la pellicola costruisce la propria narrazione come un controcanto, nella figura di Mimosa (Rebecca Antonaci), ragazza di semplice estrazione la cui traiettoria si incrocia con la scia lasciata da diversi attanti, corpi celesti, meteore visibili per una sola e straordinaria notte della sua vita. È la magia di Cinecittà, non per nulla definita all’epoca la Hollywood sul Tevere, dove la giovane viene casualmente presa come comparsa in un kolossal americano. Sul set finisce per attirare le attenzioni di Josephine Esperanto (Lily James), magnetica diva che tutti vorrebbero compiacere, la quale convince Mimosa a festeggiare con il cast la fine delle riprese. In balìa di forze a lei estranee, la ragazza si ritroverà trascinata attraverso una notte infinita, accompagnata poi da Sean Lockwood (Joe Keery), nuova promessa del cinema statunitense, e Rufus Priori (Willem Dafoe), gallerista americano trapiantato a Roma che fungerà da guida per il gruppo.

Se il riferimento al caso Montesi è dichiarato più volte in modo manifesto, altrettanto palese è l’aspirazione che Finalmente l’alba costruisce nel porsi come modello certo cinema d’autore italiano. Le prime sequenze, con la madre di Mimosa intenta ad accompagnare le figlie ai provini, in una Cinecittà pullulante di aspiranti attrici, richiamano in qualche modo alla mente Bellissima di Luchino Visconti. Ma il parallelismo più esplicito è certamente quello con La dolce vita, di cui il film di Costanzo vorrebbe forse offrire una versione al femminile. Come nel capolavoro di Fellini, la protagonista viene abbagliata dal fascino di una star di Hollywood, del cui movimento l’azione si fa inseguitrice. Anche qui il racconto si costruisce per episodi – per quanto racchiusi in una sola notte – i quali di volta in volta si posano sulle vicende di diversi personaggi. Collante di ognuno è l’innocente Mimosa, che con ingenuità scoprirà a sua volta di poter esercitare anch’ella una forma di attrazione. E non è certo una coincidenza che lo scandalo della ragazza morta è al centro di tanti rimandi presenti nel capolavoro felliniano.

Un paragone così pesante può far bene alla pellicola di Costanzo? Probabilmente no, ed è forse la sua dichiarata ambizione a tradirne la riuscita. La messinscena è d’altra parte ben misurata, dimostrando una certa efficacia nella ricostruzione dell’epoca, nonché della fascinazione che il mondo del cinema e delle star aveva sugli individui comuni. Convincente è anche l’intenzione di fondo, l’adozione di protagonismo femminile che possa farsi portavoce di un punto di vista in un certo senso inedito sulle vicende di cronaca di quegli anni. Eppure, più volte nel corso della sua durata, Finalmente l’alba non può che mettere un piede in fallo nella sua rincorsa ai modelli di cui insistentemente vorrebbe mettersi in scia. Col rischio di risultare, infine, pretenzioso.

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