#Venezia79: Living, la recensione del film di Oliver Hermanus

Living recensione

Una Londra d’altri tempi si affaccia dallo schermo cullata da un ritmo incalzante di musica classica. Le sue immagini patinate, a fornire un effetto retrò, confondono lo spettatore portandolo a chiedersi che film stia vedendo, o meglio da quale tempo esso provenga. È con siffatti titoli di testa che si apre Living (trailer), film di Oliver Hermanus Fuori concorso alla 79° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Siamo nella Londra del secondo dopoguerra, in un anno non precisato. Ma non è tanto la data ciò che conta, quanto l’essere tutto datato. Come il nostro protagonista, l’anziano e integerrimo Mr. Williams (Bill Nighy), il cui volto gelido e solcato dalle rughe si staglia sullo schermo con la solennità della Morte in persona. Eppure, il nostro Mr. Williams, non è certo il tristo mietitore, ma soltanto un condannato a morte.

La storia di Living è infatti quella di un uomo che scopre, a causa di una malattia, di avere ancora poco tempo da vivere. Di un uomo, insomma, che “scopre” di dover morire. Il signor Williams non è però un uomo come tutti gli altri, e questo è ben chiaro fin dall’inizio del film. A capo di un ufficio burocratico, è profondamente rispettato e venerato dai suoi sottoposti, che ne assecondano le abitudini come in un rituale cristallizzato. Tra queste abitudini ve n’è una fondamentale: porre distanza tra sé e il mondo. Mr. Williams è un uomo distaccato, freddo, che pone una barriera invalicabile tra sé e le altre persone, mentre procrastina ogni incombenza lavorativa fino a gettarla nel dimenticatoio. Ed è su questo status quo che piomba il cambiamento. Il cambiamento è la morte.

La storia alla base di Living è ispirata al film del 1952 Vivere, di Akira Kurosawa. A sua volta il dramma del maestro giapponese era basato su un racconto breve di Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, al cui centro vi è un uomo di fronte all’inevitabilità della morte. Tutte queste influenze vengono convogliate nella sceneggiatura di Living, non a caso ad opera di Kazuo Ishiguro, scrittore inglese di origine giapponese. L’autore premio Nobel tratta la materia della storia con lo stile che ne contraddistingue la poetica, tratteggiando un personaggio a tinte surreali e favolistiche. Ne emerge una figura emblematica, metafora dell’uomo che ritrova il contatto e il bisogno di vivere solo davanti alla morte. In questo modo il signor Williams, spinto da un dimenticato desiderio di sentirsi vivo, intraprenderà un percorso di cambiamento guidato dalla giovane energia di Margaret (Aimee Lou Wood).

Bill Nighy, con una mimica sempre misurata, giganteggia nel ruolo, donando al personaggio uno spessore che da solo regge sulle spalle l’intero film. Tra momenti venati di ironia e passaggi votati alla drammaticità, Mr. Williams rivela un carattere con cui lo spettatore è portato profondamente ad empatizzare. D’altra parte forse il limite di Living è proprio il suo ostentato intento pedagogico, il suo voler a tutti i costi fornire una parabola che sia da lezione universale. E così sul finale il personaggio che ne viene fuori rischia di risultare a metà tra il saggio eremita e il santo evangelico. A conti fatti Living è sicuramente un’opera profonda, ispirata e appassionata, che regala veri e propri momenti di intima riflessione. Trainato da superbe prove attoriali, il lavoro di Hermanus si rivela uno dei film da tenere d’occhio in questa edizione della mostra.

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