#RomaFF17: Il colibrì, la recensione del film di Francesca Archibugi

Il colibrì recensione

Il colibrì (trailer), ultimo lungometraggio di Francesca Archibugi, tratto dal romanzo di Sandro Veronesi e film d’apertura della 17esima edizione della Festa del Cinema di Roma, è stato presentato come la “storia della forza ancestrale della vita, della strenua lotta che facciamo tutti noi per resistere a ciò che talvolta sembra insostenibile. Anche con le potenti armi dell’illusione, della felicità e dell’allegria”. Quella del medico Marco Carrera (Pierfrancesco Favino) sembra essere prima di tutto una lotta contro un’infelicità che ossessiona da sempre la sua famiglia. Dal rapporto travagliato dei genitori condito dai tradimenti della madre (Laura Morante), la morte della sorella Irene (Fotinì Peluso), l’amore mai realizzato e consumato con Luisa Lattes (Berenice Bejo) fino al matrimonio problematico con Marina (Kasia Smutniak), da cui avrà una figlia, Adele (Benedetta Porcaroli). Il mondo in cui si muove Marco è dominato dai non detti, dalle menzogne (Marina ha sempre affermato di aver donato il proprio midollo alla sorella malata di leucemia, quando in realtà non era compatibile), dai litigi, dai traumi mai superati. Il passato continua a ossessionare un presente che non sembra essere in grado di fornire la possibilità di un cambio di rotta.

Marco sembra essere l’incarnazione dell’uomo buono, o più precisamente di un bambino cresciuto fisicamente ma che preserva un’innocenza e una purezza che sembrano estranei a chi lo circonda (Il colibrì è il soprannome che gli era stato dato da ragazzino perché era più piccolo degli altri, necessitando di una cura per gli ormoni), tanto da non voler mai fare del male a nessuno. Il solo pensiero lo turba, sarebbe lui il primo a risentirne. Quella che mette in scena l’Archibugi è una vita legata a doppio filo con altre vite e in cui il destino e il caso sembrano avere un ruolo cardine. È da questo che deriva il rifiuto per una narrazione che proceda in ordine cronologico (dagli anni ’70 a un futuro più o meno prossimo) a vantaggio di scelte di montaggio volte a collegare tempi ed età diverse in un flusso ininterrotto di presente, passato/adolescenza (con il ricorso al flashback) e futuro/vecchiaia (i flashforward), mostrando come tra questi diversi strati di tempo i drammi e le difficoltà di fronte ai quali veniamo posti sono gli stessi, anche se con qualche piccola variazione (la destrutturazione della narrazione cronologica era comunque prerogativa già del romanzo).

La disfunzionalità dei rapporti di coppia, che si sdoppia da un lato nella relazione tra i genitori di Marco (che resteranno comunque insieme fino alla morte), dall’altro nel suo matrimonio con la moglie Marina (che si concluderà con il divorzio), il confronto con la morte e le difficoltà a elaborare il lutto, il rapporto tra padri e figli. Ma la rottura dell’ordine cronologico tradizionale serve anche a mostrare come talvolta la vita riesca a creare dei legami insospettabili tra le persone, come avviene nel caso del primo incontro tra il protagonista e Marina. Due vite legate da un incidente aereo a cui sono scampate ma che le avrebbe condannate alla morte. Peccato che più si prosegue, più la struttura architettata dalla Archibugi finisca per scadere nella ridondanza, sacrificando anche personaggi a cui viene concesso uno spazio minimo sullo schermo. È il caso dello psicoanalista Daniele Carradori (Nanni Moretti) che in più di un’occasione aiuterà Marco, ma di cui si fa fatica a cogliere spessore ed evoluzione; ma lo stesso lo si potrebbe dire per “l’amante” Luisa o per la figlia Adele.

Lo spettatore viene continuamente sballottato da un tempo ad un altro, da un rapporto ad un altro, avendo sempre la sensazione di restare sulla superficie, quasi si trovasse di fronte a un calderone dentro cui infilare più cose possibili senza mai approfondirne una (oltre a quelle cui si è accennato, viene toccata anche la questione dell’eutanasia). Tutto finisce per essere didascalico e fastidiosamente programmatico, passando per momenti isolati che non trovano seguito (Marco trattenuto dalla polizia mentre si reca a Parigi perché accusato di terrorismo, in una situazione che ricorda quasi quella del Paul Dedalus de I mie giorni più belli di Arnaud Desplechin) e giungendo fino alla tirata moralista di bassa lega. Per intenderci: i soldi non fanno la felicità, che va invece ricercata nelle piccole cose. Per una prima serata su Rai1 sarebbe calzante, meno per chi va in sala e dal grande schermo si aspetta qualcosa in più.

Il colibrì è al cinema dal 14 ottobre.

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