La sconcertante – eppure non imprevedibile – storia di una vittima che diventa colpevole nel corso di uno spietato processo alle intenzioni destinato a non risolversi mai, il film di Jean-Paul Salomé, presentato nella sezione orizzonti della 79ma edizione della Mostra di Venezia, si ispira alla vera vicenda di Maureen Kearney (Isabelle Huppert) ma, nonostante il grande potenziale della storia da cui è tratto, il film conferma di essere l’ennesimo biopic non all’altezza della materia narrativa. L’opera cinematografica descrive la lunghissima vicenda giudiziaria e politica di Maureen Kearney, sindacalista della Confederazione francese democratica del lavoro e segretaria del comitato aziendale europeo di Areva, una grande multinazionale francese leader nel nucleare, che, nel 2012, dopo essere venuta a conoscenza di trattative segrete tra Areva e il mercato cinese, viene aggredita e stuprata nella sua stessa casa, solo per aver tentato di diffondere la notizia e lottato per ostacolare il licenziamento di circa 50000 lavoratori francesi.
Ne La verità secondo Maureen K.(trailer) non traspare una grande autorialità e l’approccio di Jean-Paul Salomé alla narrazione è piuttosto canonico, un approccio che limita le possibilità di un film che finisce per investire di molte responsabilità la sua protagonista, la meravigliosa e commovente Isabelle Huppert. È la sua rappresentazione di Maureen Kearney a salvare il film dall’anonimato, un film che senza di lei non sarebbe stato nemmeno lontanamente efficace – di un’efficacia per giunta fallace – di quanto non si attesti così. È attraverso il non essere una vittima abbastanza buona della Hupper, infatti, che il film critica tutte quelle sovrastrutture patriarcali che biasimano la reazione di Maureen Kearney all’aggressione.
Ma se da una parte il film prende una posizione proprio attraverso la messa in scena della visione distorta di ciò che significhi davvero essere una vittima, in questo caso non abbastanza allineata alla norma canonica per essere considerata credibile, dall’altra il continuo riferimento al paradosso della Wonder Woman, sempre pronta ad affrontare ogni calamità, destabilizza un equilibrio già di per sé precario. Le persone, gli uomini, attorno a Maureen K. le intimano di rallentare, di staccare, di smettere di recitare una parte da supereroina che non le appartiene ma allo stesso tempo si aspettano da lei proprio questo, si aspettano delle reazioni – che puntualmente non sono le reazioni corrette -, si aspettano conflitto e ribellione. Gli uomini attorno a lei le intimano di non reagire perché lei, effettivamente, non è Wonder Woman, eppure, quando arriva il momento di tirare le fila del discorso, le rimproverano proprio l’atteggiamento che tanto l’hanno spinta ad assumere. Maureen K. non è una vittima abbastanza credibile perché non ha reagito, perché il suo corpo non si è ribellato ai soprusi, ma Maureen K. rimane comunque una persona scomoda proprio perché a questi soprusi si ribella ogni giorno, mentre attorno a lei tutti si arrogano il diritto di dirle cosa fare e come reagire.
Quella che La verità di Maureen K. si prende la briga di raccontare è una storia sfaccettata e variegata, fondata su tutta quella serie di dinamiche afferenti i diritti dei lavoratori, passando per i complotti capitalisti, fino alla violenza – lavorativa, psicologica, fisica – di genere, che il film, però, manca di trattare con la giusta cura, che manca di analizzare come il risultato complessivo di un sistema corrotto e fallace, andando invece ad innalzare proprio tra tali dinamiche una serie di barriere piuttosto evidenti. Nonostante si tratti di meccanismi di abuso strettamente correlati, nel film questi divergono tra di loro e si rubano d’importanza a vicenda, senza tener conto della necessità di essere visti come una concatenazione inevitabile di eventi e non di essere messi nella condizione di contendersi la scena in base all’efficacia narrativa del momento. La loro portata nel film di viene ridimensionata ed ingigantita a ripetizione, in un continuo ricambio di tematiche che porta lo spettatore a perdere la visione complessiva.
Le ingiustizie sul posto di lavoro, il dominio dell’economia di mercato, la violenza di genere si fagocitano a vicenda, dividono il film in blocchi sconnessi che concorrono nel farlo cadere in quelli che sono i rischi della messa in scena del reale, ossia l’accostarsi ad una storia così delicata (come quella della sindacalista francese che avrebbe potuto distinguersi per la grande varietà di tematiche sociali al suo interno), nella maniera meno opportuna, ossia riducendo la componente politica e concentrandosi sulla realizzazione di un film soltanto piacevole e per nulla coraggioso.
Dal 21 settembre in sala.