Due estranei, la recensione del cortometraggio su Netflix

L’ansia della ripetizione. Ogni giorno, per cento giorni, lo stesso identico incubo. Cambiano le forme, ma il finale rimane tragicamente invariato. Due Estranei (trailer) è il racconto di un destino violento, cronistoria anomala nella sua crudezza, quella di un giovane graphic designer afroamericano, Carter (Joey Badass), che una mattina si sveglia nel letto dell’estrosa Perri (Zaira Simone), nuova conoscenza con cui ha passato la notte. Alla seducente proposta di un brunch insieme, Carter rinuncia a malincuore: sente la premura di tornare a casa dal suo amato cagnolone Jeter, che lo sta aspettando. Poi però, qualcosa va storto. Varcato il portone del palazzo, il fumettista verrà sopraffatto da una serie di fulminei e sfortunati eventi che lo condurranno al confronto minaccioso con l’agente Merk (Andrew Howard) il quale, durante uno scontro in seguito ad un tentativo di arresto, finirà per ucciderlo.

Poi il risveglio nello stesso letto. Tra lo spavento appena vissuto e il sollievo inconsapevole dello straziante loop che vivrà nelle successive novantanove notti, Carter sarà vittima di una lenta epopea, variegata solamente nelle tonalità della sua morte, perennemente ad opera dell’agente Merk. Ci sarà sempre qualcosa, anche la più insignificante a far arrabbiare lo scorbutico poliziotto.

“I can’t breathe” ansima il protagonista nel momento in cui l’agente gli cinge il collo con il braccio. Lo sfinimento racchiuso in un’espressione ormai sconsolatamente nota che a quasi un anno dalla tragica morte di George Floyd risuona come un grido d’aiuto di portata globale. Una volta fuori dall’appartamento di Perri, Carter ascolta il brano “The way it is”. Scritto negli anni Sessanta durante i movimenti per i diritti degli afroamericani, il testo sottolinea l’idea dell’ineluttabilità delle cose. Il protagonista prenderà pian piano consapevolezza di essere impotente dinanzi a un fato estraneo. Abitare la distanza non basta se la morte è un agente in divisa ad aspettarti con la pistola puntata.

Fresco di trionfo agli Oscar, il cortometraggio scritto da Travon Free e diretto da Martin Desmond Roe è una pellicola pregevole, che nella regia ha il merito di soffermarsi sui dettagli e nella sceneggiatura quello di svelarli con maestria, furbizia e perché no, anche un pizzico di velata ironia, mostrandosi all’altezza dell’incredibile realismo del soggetto. Si può certamente obiettare la tendenza forsennata dell’Academy verso la linea politically correct (molto politica e artisticamente priva di onestà intellettuale), ma stavolta siamo lontani anni luce dal prodotto confezionato appositamente per la statuetta in stile Moonlight o Green Book, anzi, Due Estranei (Two Distant Strangers il titolo originale) è un’opera viva, che respira. Parla poco eppure comunica intensamente.

Sublime, in tal senso, il dialogo in macchina tra l’agente Merk e Carter. Il primo al volante, il secondo dietro. Due personaggi agli antipodi. Da una parte l’alfiere dell’american dream, dall’altra un animo sognante dagli ideali erranti. Una distanza manifesta, resa evidente anche dal divisore stesso della volante. Parlano di segni zodiacali, di innamoramento e della disumanità della legge. Per qualche istante affiora la chimera che non siano poi così distanti i due, che la discriminazione sia un mostro sotto al letto familiare ad entrambi. E allora l’agente Merk inizia a sembrare più buono, i suoi lineamenti appaiono più delicati, gli occhi di un celeste benevolo e lo sguardo tutt’a un tratto confortevole. Sembra che tutto sia passato, insomma, che stavolta i cattivi non l’hanno avuta vinta.

E invece no. La storia non insegna, si ripete, sempre più crudele e uguale a se stessa, come mostra la lista delle vittime afroamericane nei titoli di coda; donne, uomini innocenti come George, Michelle, Walter, come Breonna, oppure come Carter. Identità sottratte, corpi negati. Rimangono soltanto i nomi: unici rimasugli di un’esistenza delegittimata dal tentativo dell’esercizio. Ristabilire l’imperativo: uccidere per sopprimere il caos, morire per testimoniarlo. La fine assume i connotati di una macchia di sangue con la forma del continente africano.

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