Dead Ringers, la recensione della serie su Prime Video

Dead ringers

Una serie remake di un film cult tratto da un romanzo di successo, a sua volta ispirato ad un episodio di cronaca della New York del 1975. Sì, Dead Ringers (trailer) è la quarta derivazione di una storia che, tra gli altri, è stata figlia di un regista come David Cronenberg, creatura imperfetta ma memorabile del maestro del body horror.
C’era davvero bisogno di una nuova metamorfosi per Dead Ringers, di una mutazione formale e contenutistica? Nell’epoca del rifacimento blando, della riproposizione serializzata senza arte né parte, la serie targata Amazon Studios, la propria, di parte, la fa dimostrando una sorprendente personalità, e se scomodare la categoria artistica è quasi sempre avventato, non lo è di certo annoverare Dead Ringers tra i remake più riusciti degli ultimi anni: una mutazione, sì, ma evolutiva in ogni aspetto, nonostante lo stadio precedente porti la firma di Cronenberg.

Non è difficile scovare le ragioni e gli elementi che hanno determinato la qualità dell’operazione: una showrunner di talento come Alice Birch, una Rachel Weisz in stato di grazia e un’estetica ricercata. La sceneggiatrice britannica porta con sé il proprio bagaglio drammaturgico tirando fuori dialoghi intensi e teatrali, personaggi vittime di un profondo disagio esistenziale, un latente e continuo dilemma etico per dar vita ad una tragedia in 6 episodi dai temi controversi e dai toni patetici.

Le gemelle Mantle, Elliott e Beverly (interpretate entrambe da Rachel Weisz che abbiamo visto recentemente in Black Widow), sono due ginecologhe di successo con la comune ambizione di rinnovare le pratiche di assistenza alle donne in gravidanza e durante il parto. Le due sono gelide, straniate, fuori contesto, geniali. Il loro è un rapporto morboso, simbiotico, malsano, fatto di co-dipendenza e condivisione. Una è sicura di sé, insensibile, megalomane, l’altra empatica, apparentemente integra. Elliott vede in un corpo un’opportunità per la sperimentazione, per la scienza, Beverly lo considera un tempio, un simulacro le cui pratiche di preservazione sono ancora obsolete e da rivoluzionare. Una rivoluzione che, di fatto, bramano entrambe, ma nel dichiararne le modalità e definirne gli esiti le gemelle rivelano una distanza incolmabile (che le rende, ancor di più, complementari) sul piano morale. Ogni discussione marca la dicotomia, ogni dialogo la esplicita e la rimpolpa, finendo per assumere i contorni filosofici di un botta e risposta platonico, supportato ed ampliato da corpose scene di accesi dibattiti tra facoltosi con molto tempo per pensare e con il comune hobby di spacciarsi per intellettuali.

Guardando Dead Ringers si ha l’impressione di assistere ad una lunga serie di cene snob travestite da cenacoli, banchetti simposiali in cui i commensali, tra feticisti dell’anti-etico, dell’oltre il limite e sostenitori dell’antitetico, conservatori dell’invalicabile, sembrano avere le idee chiare sui temi più disparati. La serie tv finisce, insomma, per costituire un colorito trattato etico in forma televisiva che ha forse la pretesa di toccare troppi temi (il capitalismo, l’attivismo, il femminismo, la ricerca scientifica) senza scongiurare una certa superficialità e un’astrusità diffusa, ma dimostrando il valore di argomentare con sagacia e in maniera stratificata la questione principale: la gravidanza. Inseminazione artificiale, maternità surrogata, fecondazione assistita, solo per rimanere nel campo del possibile e dell’attuale; ritardo della menopausa, pacchetti per la longevità, il completo sviluppo del feto in laboratorio per sfociare nel presumibile e nel futuribile.

Ad una componente filosofico-morale preponderante, Birch affianca l’orrore tutto cronenberghiano di corpi che impressionano, un body horror, in realtà, depurato da ogni deformità fisica repulsiva, mutazioni genetiche o deturpamenti raccapriccianti, ma che può continuare ad esserlo spostando l’attenzione sulle pratiche ospedaliere, sulle incisioni di un bisturi che penetra la carne, di forbici che recidono cordoni ombelicali, su un aborto tenuto in mano con espressione inerme. Un brivido visivo che non esaurisce la dose di inquietudine che Dead Ringers ricerca, inoltre, in una costante angoscia prodotta dalle possibilità della psiche deviata di una Elliott che si divide, si disintegra quando la “sacra condivisione” viene meno, quando la variante impazzita Geneviève si intrufola nelle loro vite, nel loro legame, nella loro essenza, e la sfalda, la viola negando la compartecipazione. E, ancora, disturba e si alimenta la paura primitiva del doppio, dell’identico, del doppelgänger, del sostituto, dell’impostore, che manda in frantumi la sicurezza dell’unicità.

A supportare questo turbamento persistente una colonna sonora ansiogena che sa di morte che incombe e di insania che cresce, una regia (con Sean Durkin, Karena Evans, Karyn Kusama e Lauren Wolkstein a passarsi la staffetta) che tra plongée e contre-plongée funerei e anomali e rovesciamenti che alterano e straniano, si carica di forza espressiva. Stesso discorso vale per la fotografia patinata ma netta, dal cromatismo deciso e simbolico, con il rosso che primeggia, tingendo i camici dei medici e i soffitti delle sale operatorie, trasformando laboratori in camere oscure, schizzando e imbrattando in forma di sangue. Scelte estetiche calzanti che prolungano il discorso di Birch, che lo colorano rendendolo più cinereo e che intensificano il disagio ed il piacere di una messa in scena scomoda.

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