#Cannes78: Le città di pianura, la recensione del film di Francesco Sossai

la città di pianura, recensione

Durante una notte di bevute, alla ricerca dell’ultimo bicchiere degno di questo nome, Doriano (Pierpaolo Capovilla) e Carlobianchi (Sergio Romano) si imbattono in Giulio (Filippo Scotti), un ragazzo che della vita non sa ancora nulla. Sebbene refrattario all’inizio, il giovane decide di assecondare i due cinquantenni ed inizia così per lui un viaggio iniziatico che lo cambierà e che forse un po’ consolerà la sofferenza esistenziale dei suoi compagni accidentali.

Se all’inizio sembra di assistere ad Aspettando Godot di Samuel Becket, con l’incontro di Giulio il film sembra virare verso Il sorpasso di Dino Risi, per poi assestarsi in un classico racconto di formazione ben scritto e fortemente radicato sul territorio in cui si svolge. All’inizio lo scopo è solo quello di andare a prendere l’amico Genio a Venezia, di ritorno dalla sua fuga in Argentina per sfuggire da un reato ora in prescrizione, ma poi piano piano Genio /Godot si scioglie fino a diventare un elemento di passaggio rispetto ad una ricerca esistenziale verso qualcosa di sempre più indefinito ma coinvolgente.

Il film contrappone le emozioni di un ragazzo inesperto della vita e dell’amore, con una identità da definire ed un futuro che ancora dovrà segnarlo, con chi invece che al futuro guarda al passato e ad una interpretazione nostalgica e idealizzata dello stesso. In questo contrasto si sviluppa l’anima del racconto che è anche uno sguardo disilluso e amareggiato sull’urbanizzazione selvaggia che rischia il nord Italia, sulla furia fatta di cemento ed imprenditoria che lentamente distrugge il paesaggio ed il passato per fare di luoghi di memoria umana semplici ed anonimi luoghi di passaggio.

Il film è anche un ragionamento poetico sulla mutazione generazionale della classe operaia. Le città di pianura gioca sulla lotta fra una vita da vinti ed una vita incerta e confusa ma ribelle al destino statistico di una generazione. Un mondo che vuole schiacciarti come il gelato che cade in strada nel finale del film e la vitalità dei vinti che rifiutano il proprio destino istituzionalizzato da cui fuggono poeticamente in cerca di un’ultima bevuta beckettiana che non si vuole davvero mai soddisfare. Il film è molto accurato nel valorizzare il territorio, nel rispettare la cultura locale, oltre ad essere un racconto inclusivo che abbatte gli stereotipi di genere e di differenze tra nord e sud.

La sceneggiatura in questo è molto accurata, ma se si vuole trovare un difetto nella scrittura lo si può evincere nel desiderio di integrare tutte queste caratteristiche con poco tempo narrativo a disposizione. Nonostante ciò, resta comunque un prodotto fuori dagli schemi commerciali attuali e interessante per il suo carattere, un po’ come i personaggi che racconta.

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