8½, l’eredità di Asa Nisi Masa 60 anni dopo

Approfondimento eredità 8 1/2

Mi ritrovo seduto in un bar a Roma. Alla mia sinistra una tazzina di caffè vuota. Alla mia destra una serie di libri e una busta di tabacco aperta. A tenermi compagnia un gruppetto di amici; c’è chi studia ingegneria, chi invece legge Dostoevskij. Davanti a me il computer portatile acceso su una pagina di Word. Bianca. Vuota. Più la guardo, più mi sembra di sprofondare nell’abisso. Scrivo un titolo, non mi piace e lo cancello. Insomma, cosa c’è rimasto da dire su un film come (trailer) di Fellini? Come ancora può essere analizzato uno dei più grandi capolavori del cinema mondiale senza finire per ripetere ciò che è già stato ampiamente sviscerato?  Ci penso un secondo in più e finalmente la lampadina si accende. In questo momento, davanti all’abisso, senza più nulla da raccontare ma con il dovere di farlo, mi ritrovo nella stessa situazione di Guido Anselmi (Marcello Mastroianni)/ Federico Fellini. E come lui ciò che mi resta da fare è raccontare il processo di creazione, trasformare in diegetico l’extra-diegetico. Arrivato a questo punto la realizzazione viene spontanea. Se a distanza di 60 anni questo film riesce ancora ad essere di ispirazione nella mente di un appassionato come me, che potere può aver avuto sulle menti dei creativi geniali che lo hanno succeduto? Qual è la vera eredità di Asa Nisi Masa?

Iniziando a parlare di semplici citazioni evocative già ci potremmo iniziare a fare un’idea dell’influenza di . L’esempio più eclatante di questo genere, che appare magicamente nelle menti di tutti i cinefili, è indubbiamente il momento di ballo nel Pulp Fiction di Quentin Tarantino (regista a sua volta notoriamente, ed estremamente, cinefilo). I passi di danza di Mia Wallace (Uma Thurman) e Vincent Vega (John Travolta) li abbiamo già visti. Certo il contesto è diverso; da una parte un bar capace di sprizzare americanità da qualsiasi angolo lo si guardi, dall’altra una stazione termale, un simbolo di riposo e cura su uno sfondo tipicamente italiano. Ci troviamo davanti a due narrazioni agli antipodi, eppure si sente il bisogno di riportare in vita i fantasmi di Fellini. Il postmodernismo si è allontanato radicalmente da quel tipo di autorialità, ma ci si sente ancora debitori nei confronti del maestro, tanto da dedicargli questi spazi per ricordarlo in mezzo al marasma ludico tipico del nuovo millennio.

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Ammettere che l’unica cosa che ci rimane di sono piccoli riferimenti giocosi all’interno di un mondo che ormai lo ignora non sarebbe però corretto. Osservando gli ultimi due anni di uscite cinematografiche ci si accorge che sono vari i registi che , sempre con le loro peculiarità autoriali, hanno cercato in qualche modo di emularne lo stile narrativo. Tre sono gli esempi più spiccati di questo modus operandi: Sorrentino, Spielberg e Iñárritu. Il primo lo ha fatto mostrandoci il suo periodo adolescenziale, raccontandoci in È stata la mano di Dio come è nato il suo amore per il cinema nei sobborghi napoletani. Il suo auto-raccontarsi in un ambiente italiano attraverso un alter ego che differisce da sé forse solo per il nome ci rimanda esattamente alla pellicola di riferimento. Ad alimentare l’omaggio già abbastanza esplicito si aggiunge la sequenza nel quale il regista romagnolo compare come personaggio del film, evocandone così l’anima attraverso i volti circensi che hanno caratterizzato il suo mondo.

L’operazione di Spielberg è leggermente diversa ma anche qui ritroviamo, con la sua cifra stilistica, una necessità autobiografica. The Fabelmans è una americanizzazione della diegesi felliniana nel quale l’azione di fare un film, e quindi di farsi regista, viene inseminata dal sogno americano e dal racconto per famiglie. Spielberg ci ha mostrato un in versione blockbuster, dove la riflessione critica sul mezzo viene accompagnata dalla spettacolarizzazione a stelle e strisce. L’ultimo caso che voglio riportare è, come anticipato, il film targato Netflix dell’amatissimo regista messicano: Bardo, la cronaca falsa di alcune verità. In questo caso, per quanto venga accantonato il tema cinematografico, il segno lasciato dalla figura di Guido Anselmi è evidente, partendo proprio dall’incipit del film, nel quale vediamo il nostro protagonista librarsi in volo. Una sequenza onirica che non può che riportarci alla memoria Marcello Mastroianni sospeso leggero tra le nuvole. Il film però non si limita a questo: frequenti sono i sogni che rimandano all’originale, dall’incontro coi genitori defunti al critico che giudica altezzosamente la sua persona e le sue opere.

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Anche questo breve excursus sugli autori contemporanei non basta a comprendere quanto si espandano i suoi orizzonti referenziali, in quanto si limita a parlare di cinema; va oltre, toccando il mondo di tutte le arti. In questa sede vorrei continuare il discorso con una breve disquisizione sulla musica, portando anche in questo caso tre esempi cardine. Il primo è L’estate di John Wayne di Raphael Gualazzi. Il cantautore dalle tinte soul con questa ballata pop ci porta a sognare un mondo spensierato facendo sperimentare all’ascoltatore quella sensazione di nostalgia indotta per momenti raccontati, quindi non vissuti in prima persona, esordendo proprio con «Tornerà Fellini e dopo un giorno farà un film soltanto per noi». Nonostante le sonorità siano ciò che più di lontano c’è dalle musiche del maestro Nino Rota, il background culturale a cui ci rimanda è quello, come un grande circo dislocato nel tempo.

E, a proposito di circo, passiamo al secondo esempio: Il circo discutibile di Elio e le storie tese. Questa canzone del 2016 del complesso umoristico milanese porta in vita particolari personaggi circensi attraverso cui metaforicamente descrivono la propria carriera; ancora una volta torna l’utilizzo di un alter ego dell’autore. L’acrobata distratto dalla musica che inciampa e cade o il mangiatore di spade col singhiozzo sembrano personaggi di una pellicola mai realizzata da Fellini. Il tema è quello del tentativo maniacale della riuscita artistica e personale sulle note della più classica canzone festosa suonata però con note malinconiche. «La perfezione è un falso e rende pazzi e questo invece è il circo di sticazzi». Il compito di concludere questo grande omaggio viene quindi lasciato a Fellini in persona, la registrazione di un frammento del film Federico Fellini: sono un gran bugiardo mixata in armonia con Pagliacci di Ruggero Leoncavallo ci accompagna alla fine del brano.

C’è pero chi si è cimentato in un qualcosa di più ardimentoso. Il noto rapper Caparezza ha infatti voluto dichiaratamente fare un personalissimo musicale con il suo ultimo album dal titolo Exuvia. In ogni brano del disco ritroviamo i frammenti di un puzzle autoreferenziale e autoriferito, colmo di citazioni a sé stesso e agli artisti che stima. Dal racconto della propria carriera in prima persona ai propri dubbi e incertezze sul se e come continuare il proprio percorso artistico, passando per la perdita della meraviglia. D’altronde è egli stesso a smascherarsi quando nel brano Eterno Paradosso rivela questo fil rouge «Per gli amici sono Snàporaz, cito sempre 8½ ».

Per quanto mi possa dilungare però, continua a sembrare impossibile arrivare ad un punto. D’altronde nemmeno Fellini ci è riuscito. Quello che ci rimane da fare è quindi una sola cosa, prendersi per mano e ballare in tondo insieme a tutti i personaggi di questo articolo, ma soprattutto insieme a lui. «Non è un film triste. È un film dolce, aurorale. Malinconico, semmai. Però la malinconia è uno stato d’animo nobilissimo: il più nutriente e il più fertile» (Tratto da un’intervista di Oriana Fallaci a Federico Fellini).

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