#Venezia78: Atlantide, recensione del film di Yuri Ancarani

Atlantide recensione film Yuri Ancarani DassCinemag

«Tu lascia stare i sogni» dice Daniele Barison, età 24, alla sua giovane ragazza in una delle tante uscite che i due fanno sulla superficie della laguna a bordo del barchino costumizzato di lui. Daniele abita a Sant’Erasmo, una delle tante isole di Venezia, campa alla giornata, di espedienti che possano mettergli qualche soldo in tasca da reinvestire in quell’imbarcazione ultraveloce che gli fa anche da tetto sulla testa durante la notte.

Daniele è il protagonista di Altantide, opera a metà tra il docu e la fiction diretta da Yuri Ancarani e presentata nella selezione di Orizzonti della 78esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Diretta e non scritta perché Atlantide ha poco più che un canovaccio a fargli da impalcatura di uno sguardo concesso al mondo di una gioventù marginale, densa di volti che sono maceri di umanità e che Ancarani va a pescare nell’arco di una ricerca durata circa quattro anni e ad amare con una sincerità che ha dello sbalorditivo.

Questi volti e corpi incontrati per la prima volta sotto al sole di un’estate senza prima e senza dopo paiono quasi presi in prestito da Beach Rats di Eliza Hittmann, bruciati sulle spalle, solidi di una giovinezza inscalfibile e devoti al culto del motore, della spinta sull’acqua che deve spingerli non si sa bene dove (forse verso di noi, così come quando viene mostrato in favore di telecamera il tachimetro che segna la nuova prodezza di velocità).

Daniele, tra questi volti, è quello più commovente, che strugge solamente a guardarlo fisso per alcuni istanti. Ancarani lo sa e gli monta attorno un’intera narrazione sostanzialmente muta ma furbescamente confezionata con un desiderio puro, debitore di un’estetica da videoclip racchiusa nella pulsazione sonora firmata da uno dei produttori musicali più in voga degli ultimi tempi, Sick Luke.

E il ritmo accompagna, quasi perenne, le giornate colme di ellissi di Daniele e di tutti gli altri. Viene quasi da chiedersi cosa ne pensa il Gastón di Ema di Pablo Larraín di questo ritmo qui, che i giovani proprio non li comprende e condanna le sonorità cicliche, che stordiscono e imbambolano le ore di corpi qui espulsi da una città che accoglie navi colossali all’interno dei suoi delicati golfi. Venezia è irraggiungibile dice ancora Daniele, che tanto vorrebbe arrivarci a bordo del suo motoscafo sul quale continua a montare pezzi che acquista o sottrae al mondo attorno a lui, mentre l’esistenza sospesa nel quale è calato pare avvicinarsi ogni giorno un po’ di più a un’apocalisse che arriva puntuale e spazza via ogni cosa.

Gli ultimi dieci minuti di Atlantide rappresentano la straordinaria summa di una parabola sghemba, affascinante, attraente, respingente, feroce e dolorosa nel modo in cui ritrae anche con graffiante ironia un mondo prossimo al collasso. Non si serve di parole ma a questo finale basta storcersi all’interno di quei canali finalmente raggiunti dall’uomo perduto Daniele per mettere il sigillo su un film clamoroso e senza compromessi, come pochi se ne sono visti nel cinema italiano recente. Imperdibile.

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