#Venezia78: Spencer, recensione del film di Pablo Larraín

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«Questa è una favola tratta da una tragedia vera». Così inizia Spencer (trailer), nono lungometraggio diretto dal regista cileno Pablo Larraín e presentato in Concorso alla 78esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. E quel nome proprio, Spencer, non solo richiama alla mente gli altri due biopic presenti nella filmografia di Larraín – Neruda e Jackie -, ma soprattutto evoca immediatamente lo spettro che a questo nome è aggrappato.

D’altronde la storia di Lady D., l’infelice Diana moglie di Carlo principe del Galles e futuro erede al trono della corona d’Inghilterra, è una narrazione che nel corso del tempo s’è fatta e cementificata da sé. La novella artistica ha solo preso uno dei personaggi simbolo dello scorso secolo e lo ha reso archetipo del dramma perché così ferocemente impressa nella drammaticità è stata la fine che Diana ha incontrato nella notte del 31 agosto 1997. Di lei sappiamo già ogni cosa perché s’è fatta immaginario.

E di recente il compito di indossare i prima luminosi e poi presto sconsolati occhi della principessa è toccato a Emma Corrin in The Crown, perfetta nel trasporre il passaggio dalla disillusione al dolore. Larraín sceglie invece Kristen Stewart, ma la affonda a dieci anni di distanza dal matrimonio con Carlo, chiedendole uno sguardo già colmo del sogno frantumato, carico di una nevrosi che le ha consumato il midollo e l’ha avvicinata pericolosamente al baratro. Il regista le vuole bene, la contorna di colori tenui, tracce di pastello che le sfumano i bordi attorno e concedono dei momenti d’aria che non bastano perché sono tracce vaghe di un tempo andato, risucchiato a mulinello nel vortice di un’oscurità che in Spencer prende alla gola.

L’occasione scelta è un Natale nella tenuta reale di Sandringham, castello di fantasmi, di anime perdute che vagano ma sono costrette alla dannazione di quelle mura in cui tutti sentono e vedono tutto. Si delineano così i tratti di un kammerspiel dai toni quasi orrorifici, lontano anni luce dall’eleganza austera eppure umana della già nominata The Crown. Spencer, scritto da Steven Knight, invece trae via poco a poco l’ossigeno dai polmoni di una Stewart molto valida, sensibile al punto giusto ed efficace nel restituire i tic di una vanità portata quasi ai limiti del grottesco dall’esasperazione di cui è vittima Diana.

Nei corridoi dove gli occhi scrutano e le orecchie origliano si vocifera che questa donna sia prossima al collasso, fagocitata viva da una famiglia reale che durante le cene è assorta nel mutismo e resa aliena da occhi di vetro sui quali tutto si riflette e sembra non penetrare mai. Diana prova a sottrarsi e sottrarsi, in primis a se stessa evitando il contatto con il cibo e rigettandolo qualora fosse costretta a ingerirlo (una scena in particolare pare prendere a piene mani da Swallow). Ritarda il più possibile i suoi ingressi in sala, concedendo contatto affettivo solamente ai suoi due figli e osando arrivare alle riunioni familiari addirittura dopo che la regina ha già preso posto.

Larraín le danza intorno, la segue nei suoi deliri e in quello che è una sorta di percorso di liberazione dalla scure che le pende sopra la testa (parlavamo di fantasmi e c’è anche ovviamente Anna Bolena in questa tenuta dove campeggia un enorme ritratto di Enrico VIII). I toni si fanno cupi, limbici quando il passato sale in cattedra prepotentemente e si pone come un ostacolo da affrontare che assume la forma di una vecchia stamberga dalle assi macere e scale traballanti, che Diana attraversa prima di potersi nuovamente ritrovare a danzare (in un momento molto Ema eppure delicatissimo) assaporando attimi tanto genuini quanto dal sapore dell’addio. Pablo Larraín firma ancora un ottimo film, quasi impeccabile, forse il più tenero e colmo di commozione della sua intera filmografia.

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