The Worst Person in the World, la recensione: il dolore di diventare adulti

The worst person in the world recensione film

Presentato in concorso alla 74esima edizione del Festival di Cannes, The Worst Person in the World (trailer) – uscito in Italia come La persona peggiore del mondo – è l’ultimo lungometraggio di Joachim Trier. Dopo Louder than Bombs e Thelma, il regista norvegese torna dietro la macchina da presa con un film intimo e sincero narrando in quattro anni la storia di Julie, una quasi-trentenne di Oslo.

The Worst Person in the World racconta la crescita della protagonista in un’età cruciale, rappresentandone i dubbi sul percorso universitario e lavorativo, i problemi familiari e le relazioni romantiche, uno dei punti cardine del film. Qui, infatti, viene messo in scena il rapporto con Aksel (Anders Danielsen Lie), graphic novelist di quindici anni più grande e con Eivind (Herbert Nordrum), un avvenente barista incontrato a una festa, i quali fungono anche come rappresentanti di due “forme” d’amore e tappe della vita diverse.  

Il film, diviso in dodici capitoli più un prologo e un epilogo, tende a separare come un romanzo i diversi momenti di questa tanto caotica età della vita e lo fa con un’ironia sottile che accompagna il lungometraggio per tutta la sua durata. Durante il corso del film partiamo infatti con una Julie ancora all’università, la vediamo compiere trent’anni e ne osserviamo l’evoluzione in donna adulta, assistendo alle sue tante prese di consapevolezza sul mondo.

Nonostante, come accennato poco sopra, il film parli di relazioni sentimentali e sia in realtà pubblicizzato come un film romantico già dal trailer, questo risulta decisamente riduttivo: è sicuramente un film che tratta delle relazioni e dei rapporti umani, ma è soprattutto un film di formazione sull’età tra i 20 e i 30, è uno studio su un personaggio femminile che arriva a toccare profondamente le corde emotive degli spettatori e a catturarne decisamente l’attenzione, arrivando a parlare di sessualità e salute riproduttiva femminile, di lutto, di salute mentale ma soprattutto di senso di colpa. Sembra infatti una costante, nella vita di Julie, il grande senso di colpa unito al caos delle circostanze casuali del destino.

La protagonista si sente schiacciata tra il dovere di seguire dei modelli e dei comportamenti razionali e appropriati alla sua età e il cercare di inseguire la propria felicità, metaforicamente e letteralmente. Julie si interroga se sia giusto dare ascolto ai propri bisogni, alla propria volontà istintiva di fare le proprie esperienze, ma si sente oppressa da tutto ciò che la circonda. Scegliere è crescere e se scegliere è difficile, crescere fa soffrire non solo noi stessi, ma anche chi abbiamo intorno e questo ci fa sentire le “persone peggiori del mondo”.

The worst person in the world

The Worst Person in the World è uno sguardo non edulcorato e onesto sulla vita di una giovane donna adulta e mostra molte esperienze e situazioni familiari allo spettatore per il quale è facile empatizzare con la storia. La narrazione dei trent’anni è qualcosa di ormai consolidato sul piccolo schermo: viene scontato pensare a serie di successo come Friends, Girls o Fleabag, e qui Joachim Trier cerca di riempire un vuoto al cinema sull’esempio della televisione, tanto che anche la divisione in capitoli – di dieci minuti circa ciascuno – potrebbe ipoteticamente ricordare un formato da sitcom. Un altro riferimento seriale che viene spontaneo pensando a The Worst Person in the World è Skam, serie norvegese sull’adolescenza, di cui qui si riprende la sincerità narrativa, la fotografia fredda “scandinava” e l’iperrealismo, con una narrazione però arricchita da virtuosismi di regia e scene oniriche, sfruttando quindi al massimo il mezzo cinematografico.

L’interpretazione di Renate Reinsve, vincitrice della Palma d’oro per la migliore interpretazione femminile, è sincera e toccante, incarnando un personaggio sicuramente imperfetto, sofferente e in difficoltà, ma fedele a se stesso che conduce decisamente la narrazione, nonostante le pesanti figure maschili che la circondano. Un’altra lezione importante del film infatti riguarda l’autodeterminazione femminile, la rivendicazione del proprio sguardo attivo, la necessità di crescere scardinandosi dalle aspettative della società patriarcale e così il finale risulta una decisa presa di posizione quasi politica sul futuro delle donne.

Costituendo l’ultimo film della “trilogia di Oslo” dopo Reprise e Oslo, 31 August, The Worst Person in the World risulta attento nel costruire un universo narrativo radicato nella contemporaneità, affrontando ironicamente temi come il femminismo e il #MeToo, l’attivismo performativo sul cambiamento climatico, il politicamente corretto, l’utilizzo di stupefacenti a scopo ricreativo, l’assenza delle figure genitoriali e dimostrando una conoscenza profonda di quel senso di inadeguatezza di cui fanno esperienza i coetanei di Julie. La pressione del capitalismo e l’inadeguatezza proveniente dalla competizione con gli amici e i conoscenti già apparentemente sistemati aumenta la confusione dei giovani ancora nella fase di totale scoperta del sé e il regista rende perfettamente queste contraddizioni attraverso un tono decisamente esistenzialista.

L’ultimo film di Joachim Trier è dunque un lungometraggio scritto e diretto in maniera impeccabile, che fa leva su sentimenti familiari analizzando in modo profondo ed empatico l’essenza umana, risultando uno dei migliori film del 2021.

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