#RomaFF17: The Menu, la recensione del film di Mark Mylod

The Menu #RomaFF17

Cosa succederebbe se il cuoco più noto del mondo gastronomico si stancasse di lavorare per ricchi clienti menefreghisti e meschini? Questa è la domanda che dà il via alle disavventure black comedy di The Menu (trailer), il nuovo film di Mark Mylod, presentato in anteprima nazionale nella sezione Grand Public della 17esima edizione della Festa del Cinema di Roma. Lo chef Slowik (Ralph Fiennes) è un genio della cucina molecolare, un artista concettuale che lavora sulla materia prima con estremo rispetto e cura. Una sorta di Ferran Adrià che, annunciando il suo menù più importante, si traveste da Jigsaw per vendicarsi di chi ha rovinato la sua passione con una degustazione peculiare.

Le premesse di questo horror sono ottime, gli ingredienti ci piacciono tutti. I problemi però sorgono quando il film ci viene effettivamente mostrato: fallimentare e di cattivo gusto. Il regista cerca di mettere in scena una storia con lo stile di Jordan Peele, purtroppo risultando lontano dalla sua classe comica e dall’intelligenza nella messinscena della critica sociale. Un insulto all’élite propinato con ipocrisia da due delle stelle più lucenti dello star system hollywoodiano: Ralph Fiennes e Anya Taylor-Joy. Il messaggio che arriva allo spettatore è che le cose fatte male ma col cuore sono meglio di effimeri e pretenziosi arzigogoli. Insomma, la qualità ci deve inorridire. L’importante è non cascarci e accorgersi che quello che stiamo guardando è esattamente quello che vorrebbe criticare. Una metafora snob senza cuore che riversa odio addosso alle opere altezzose. Perpetrare che è meglio un cheeseburger di McDonald’s che un pranzo all’Osteria Francescana per aizzare la folla contenta, sperando che non si accorga che a capo del corteo c’è il proprietario della multinazionale.

Le battute piazzate male non fanno ridere e la tensione è completamente inesistente; comedy e horror, più che amalgamarsi in un unico gusto, si respingono vicendevolmente rendendosi sgradevoli. Una presa in giro senza esclusione di colpi verso i papabili sostenitori. The Menu si rivela maldestro nella presentazione e disgustoso già dal primo boccone. La mano sapiente del regista di Ali G perde mordente banalizzando la questione con una sceneggiatura che potrebbe essere stata scritta da uno studente liceale alle prime armi. Non possiamo dimostrarci indifferenti alle immagini volutamente ripugnanti, ma dobbiamo fare attenzione a non rimanere accecati dallo stomaco e iniziare ad osservare con il cervello il bisogno, tutt’altro che spontaneo, della mitomania di chi è arrivato all’apice senza sentirsi soddisfatto.

Non basta la tecnica inattaccabile dello standard americano. Non bastano le interpretazioni tutto sommato soddisfacenti di tutti i personaggi del film. Non basta la fotografia del genio di Peter Deming, braccio destro in più occasioni di grandi maestri quali David Lynch e Sam Raimi. La minestra è insalvabile. Le spezie di ottima fattura sprecate in questo modo ci fanno solo immaginare quanto le potenzialità fossero grandiose. Entrare in sala con l’acquolina in bocca, sentendo il buon odore del pane caldo, abbandonandola però con la bocca asciutta è peggio di non aver avuto fame dal principio.

The Menu è al cinema dal 17 novembre.

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2 thoughts on “#RomaFF17: The Menu, la recensione del film di Mark Mylod

  1. Il regista Mylod, sale su un piedistallo cercando di fare denuncia sociale, in realta’ il film risulta essere un insulso horror ricco di violenza gratuita e insensata. Unico risultato lo spettatore ne esce schifato, rimpiangendo lo spreco di tempo e i soldi spesi per vedere questa reale schufezza.

  2. Chi ha scritto questa critica ho l’impressione che non abbia capito molto del film, non che ci sia niente da capire più di quello che si vede, ma ha decisamente frainteso. Tipo, per fare un esempio, nessuno dice mai da nessuna parte che un hamburger di McDonald’s sia meglio della cucina stellata. Lei chiede al cuoco di cucinargli un piatto semplice, nello specifico un cheeseburger, sicuramente perché viene considerato come un piatto basic della cucina americana, ma soprattutto sapendo che il cuoco ha iniziato la sua carriera in un fast food (vediamo la foto poco prima in casa sua “l’impiegato del mese”). Lo prende sul sentimentale, lo riporta ad un epoca in cui lui, pur lavorando più modestamente, era contento di servire un buon panino ai suoi clienti, più semplici dei suoi attuali ricchi frequentatori, ma forse più grati di mangiare un piatto semplice cucinato con amore. È molto più una critica al sistema capitalista e ai ricchi mai contenti di ciò che hanno, che una critica all’alta cucina. I cuochi stellati al massimo vengono un po’ perculati, ma sulla clientela che hanno, non sulle loro capacità. Mai viene detto che siano degli idioti. Al massimo si dice che è un brutto ambiente, stressante, che è risaputamente vero. Boh, mi pare che ci sia stata poca attenzione a ciò che il film voleva comunicare, mi sembra che chi scrive abbia visto un film diverso da quello che ho guardato io.

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