#RomaFF18: Fremont, la recensione del film di Babak Jalali

La protagonista del film è Donya (Anaita Wali Zada), una giovane ragazza afgana che lavora a Fremont, in California, come operaia in una fabbrica che produce biscotti della fortuna fatti a mano. Il primo elemento che salta all’occhio riguardo al film è che il tempo rappresentato coincide con il tempo di visione dello spettatore creando dunque un ritmo lento e pieno di pause che vengono posizionate all’inizio o alla fine di vari frammenti, talvolta slegati tra loro, visti in successione tramite tagli abbastanza serrati.

Fremont (trailer) scritto e diretto dal regista Babak Jalali, con la partecipazione della regista e sceneggiatrice italiana Carolina Cavalli, immerge poco a poco lo spettatore nella vita di Donya. Il personaggio è interpretato da Anaita Zada, che si approccia alla recitazione proprio tramite questo ruolo che interpreta attingendo alla sua esperienza di vita; anche lei è una profuga proveniente dall’Afghanistan. Per conoscere la ragazza si prediligono immagini e silenzi rispetto alle parole. Gli unici scambi verbali degni di nota sono quelli con l’amica Joanna (Hilda Schmelling) che sfociano spesso sul tema dell’amore, al quale Donya sembra totalmente disinteressata, al contrario della collega.

Le cose cambiano quando il suo amico e vicino di casa, non potendo andare all’appuntamento preso con uno psichiatra, le cede la seduta. Donya prende dunque un giorno di permesso e quando, sia la receptionist che il dottore, le ripetono più volte che non è possibile visitarla, per la prima volta vediamo un lato nascosto della protagonista che, con pacata ostinazione, riesce a farsi ricevere. Inizialmente lo scopo di Donya è quello di farsi prescrivere dei sonniferi, ma il dottore (Gregg Turkington) decide di volerla prendere in carico come sua paziente.

Dalle sedute emergono sempre più dettagli del suo passato tra cui il fatto che Donya, in Afghanistan, svolgeva il lavoro di traduttrice in alcune basi degli Stati Uniti traducendo informazioni e ordini per i soldati afgani. Un lavoro rischioso, non a caso Donya ricorda la morte di un collega, che però rappresenta l’unica possibilità per ottenere un visto per l’America. Tuttavia, non è stata l’attrattiva verso l’immaginario americano a spingerla a partire, infatti, Donya cita molti paesi europei in cui avrebbe potuto emigrare, ma solo la consapevolezza di non poter rimanere nella sua terra dopo l’arrivo dei talebani.

Il dottore, figura fondamentale per poter comprendere la protagonista, le diagnostica una forma lieve di stress da disturbo post-traumatico e la sprona ad abbandonare l’autoisolamento in cui Donya si è rinchiusa, per tentare invece di instaurare nuove relazioni. L’opportunità le arriva sottoforma di una “promozione” a lavoro: l’anziana donna, che si occupava di scrivere i messaggi che si trovano all’interno dei biscotti della fortuna, muore improvvisamente e a Donya viene chiesto di prendere il suo posto. I primi bigliettini sono ironici e poco soddisfacenti per chi li riceve, come per quanto riguarda il messaggio «La fortuna che cerchi è in un altro biscotto». I successivi sono in linea con i bigliettini standard fino a quando, con uno slancio decisamente impulsivo, si affida al destino con uno stato di fiducioso abbandono scrivendo il proprio nome e il numero in uno dei biglietti.

Attraverso questo azzardo Donya si ritroverà a intraprendere un breve viaggio che, inaspettatamente, costruirà delle solide basi per il suo futuro. La ragazza, infatti, ha preso coscienza di essersi punita, fino a quel momento, vivendo passivamente la sua quotidianità e lasciando a distanza gli altri. Un meccanismo di difesa che ha attuato, quasi inconsciamente, schiacciata dal senso di colpa di essere riuscita ad andarsene a discapito della sua famiglia. Un film pieno di significato che riesce a mette in scena tutti questi elementi, in modo funzionale, seppur utilizzando un tempo narrativo molto differente ai ritmi frenetici e performanti a cui siamo abituati.

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