Talk to me, la recensione: una possessione irrinunciabile

Talk to me recensione

Mia (Sophie Wilde) ha 17 anni. La madre è morta di overdose e col padre non va d’accordo. Vive allora con la migliore amica Jade (Alexandra Jensen) e suo fratello piccolo Riley (Joe Bird). Attratti da delle sedute spiritiche messe sui social da un gruppetto di ragazzi popolari, una sera Mia e i suoi amici decidono di parteciparvi. Basterà stringere la mano imbalsamata di un medium, dire «Talk to me» per vedere lo spirito di un morto e poi decidere se farlo entrare. L’adrenalina sale a mille. Il pericolo è evidente e la paura per ciò che succede spiazza tutti i presenti. Ma nonostante ciò la sensazione è irrinunciabile e, così, Mia e gli altri lo rifanno ancora e ancora. Ma se poi lo spirito decide di rimanere?

Con Talk to me (trailer), il cinema accoglie tra le sue fila una nuova coppia di gemelli: sono Danny e Michael Philippou e vengono da YouTube, dove si fanno chiamare RackaRacka. Qui intrattengono circa 7 milioni di iscritti con video parodie della cultura popolare, come un clown del McDonald che diventa un serial killer. Oggi ci portano per mano al cinema, sempre con lo stesse atmosfere dissacranti ma con un tono più maturo, riuscendo a scattare l’istantanea dell’orrore celato nelle cattive tendenze di una generazione.  In generale, da L’Esorcista a The Conjuring, il cinema dell’orrore non si è mai stufato di mostrarci la possessione in tutte le salse possibili. Stavolta il presupposto però è diverso: la possessione diventa una forma di intrattenimento estremo, una droga, il modo più ultimo che ha la generazione Z per divertirsi ed esprimersi. Così si vanno a cercare volutamente ciò che per ogni altro horror è invece il peggior incubo e questo già lo rende molto anomalo. 

Il film, che gioca con gli stereotipi in modo geniale, si apre su una classica festa liceale con mezza scuola in una villa a ballare la trap a bordo piscina. Poi si scatena l’orrore ma la gente, piuttosto che aiutare, riprende a flash acceso e ride senza pietà. Una terrificante assenza di empatia che è solo la punta dell’iceberg di questo film, capace di ipotizzare sul presente con terrificante realismo. C’è una sorta di effetto anestetico a cui hanno portato i nuovi media: la violenza mostrata ovunque, TikTok che porta la soglia d’attenzione ai suoi minimi termini, l’esorbitante ammasso di input che subisce un essere umano ogni giorno. Molti pensano che il film alluda in realtà alle droghe, ma forse ci si può vedere ancora più in generale lo spirito di una generazione alienata, che vive fuori dalla realtà concreta ed è felice solo quando con la mente è altrove. La sconnessione dalla realtà però può essere molto pericolosa e, ormai, i casi di cronaca nera legati ai social non fanno più nemmeno tanto scalpore.

Mia diventa il veicolo di tutto ciò. Come in Midsommar, la morte per suicidio di un parente è un trauma che si porta avanti e che non guarisce mai, fino a condurre alla pazzia. Mia è una ragazza fragilissima, probabilmente con qualche disturbo e, ogni volta, si incrina al punto da far esplodere tutto. È un’antieroina, non ti sta simpatica ma riesci ad entrarci in empatia. Rappresenta un po’ quel lato negativo che si preferisce sotterrare sotto falsi sorrisi ma che, prima o poi, sbuca nevroticamente fuori. Mia è piena di dolore e questioni non risolte.

Ecco allora che la possessione diventa il pretesto perfetto: lo spirito entra, legge i tuoi pensieri e rivela ad alta voce i segreti più oscuri, liberandoti da un fardello in un momento di pura sincerità. E poi ti regala un’estasi profonda: gli indemoniati si sentono bellissimi e si contorcono sensuali sulla sedia, al punto da mettersi anche in imbarazzo (ovviamente i cellulari riprendono tutto e i video rimangono), ma la liberazione è così forte che va bene lo stesso. La mano è una sorta di vaso di Pandora, che non si sa che male potrebbe far uscire, ma che alla fine è solo un pretesto, perché il vero antagonista è il marcio che si porta dentro. Le domande si accumulano, la tensione sale ed il risultato finale è un horror che arriva con una forza immane, senza chiudere nessuna parentesi e lasciando solo questioni su cui riflettere.

E se in Italia l’ha distribuito Midnight factory, in America se l’è accaparrato la A24, che non sbaglia neanche stavolta nel puntare su un cinema fresco e giovane. L’esperienza nel mondo dei video amatoriali permette ai gemelli Philippou di portarsi dietro un bagaglio di soluzioni impressionanti, dai minimi quanto viscerali effetti visivi ai rapidissimi movimenti di macchina che vogliono mimare il movimento dello spirito nella stanza durante la possessione. Medaglia di merito anche a Sophie Wilde, che regge perfettamente la sfida al suo debutto sul grande schermo, e a Emma Bortignon, che tesse un sound design davvero da far gelare il sangue. E il film è solo destinato a crescere: tra il consenso unanime della critica e le conquiste al botteghino, la A24 ha già annunciato un sequel in fase di sviluppo, Talk 2 me. Casi come questo fanno ben sperare, mostrando soprattutto ai giovani che l’importante è farsi sentire.

Talk to me è al cinema dal 28 settembre.

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