Lo stesso anno in cui la Disney ha portato a termine la sezione supereroistico dedicata agli Avengers, ha deciso di concludere anche l’ultima fase della nuova trilogia di Star Wars: Star Wars: L’ascesa di Skywalker (trailer). L’episodio IX, grazie ai trailer mozzafiato che lo hanno preceduto, sembrava promettere una nuova esperienza, capace di replicare i sentimenti generati dalla primissima trilogia che aveva avuto inizio nel 1977. Eppure, nella visione di questo capitolo che prometteva una storia sensazionale, è proprio quest’ultima che purtroppo viene a mancare a causa di un meccanismo troppo contorto che lascia lo spettatore/fan della saga in preda a forti dubbi.
Il film inizia con un montaggio ritmato e coinvolgente, che catapulta chi guarda all’interno dell’azione stessa, al fianco dei suoi personaggi. La macchina da presa segue quasi pedissequamente Kylo Ren, alias Adam Driver, che quest’anno, oltre al Sith e capo del Primo Ordine, ha interpretato altri due ruoli in un film Netflix (Marriage Story) e in uno Amazon Prime (Report), diventando l’Attore con la “a” maiuscola del momento. Questo incipit, così musicalmente orchestrato a livello di ritmo, trova la sua chiusura nella ripresentazione sul grande schermo di Rey (Daisy Ridley), ormai unica speranza per i Jedi e per la Resistenza.
Le inquadrature sono più lente e fluide. Il lavoro si sposta dal montaggio alla ripresa e lo stile di J. J. Abrams, tornato alla regia, diventa sempre più palese e raffinato. Tuttavia, quest’armonia, basata in realtà su una disarmonia legata alla figura dell’antieroe, ormai sempre più centrale nel cinema contemporaneo, con l’inizio del film si perde, lasciando troppe situazioni ed emozioni in sospeso. Se infatti l’incipit sembra approfondire il discorso portato sullo schermo dal capitolo VIII, diretto da Rian Johnson (attualmente in sala con Knives Out), rendendo davvero protagonisti i nuovi personaggi, questa potenza si perde nella ricerca di artefatti della vecchia trilogia. Tra questi troneggia la Morte Nera, che diventa «un brutto posto di una vecchia guerra» e che ricorda l’operazione effettuata da Colin Trevorrow in Jurassic World.
Un’operazione dunque che si ritrova nell’attuale strategia citazionistica presente in numerose opere audiovisive attuali, ma che in questo caso specifico diventa fin troppo melensa e oppressiva. Oppressiva, perché schiaccia ogni possibilità di narrazione, diventando solo un flusso nostalgico, che si muove tra artefatti, reperti e il ritorno, con e senza CGI, di vecchie icone. Vecchie icone che, eccetto in un caso dove il passato, ormai sbarbato, trova un proprio apice catartico, soffocano i nuovi personaggi, rendendogli impossibile diventare essi stessi nuove icone. In Star Wars: L’ascesa di Skywalker si ha così uno scontro generazionale che, se a livello diegetico, forse metacinematograficamente, vede vincere la seconda e la terza generazione (i padri e i figli) alleati contro la prima generazione (il patriarcato dei nonni), a livello filmico vede le nuove leve perire sotto la pressione del peso che hanno da portare sulle spalle, rese troppo fragili da una sceneggiatura che non li sostiene.
Nel 2019 ha fine un capitolo. Un capitolo che trova il suo epilogo in un ritorno alle origini, che rivelano la propria catarsi in un ricordo “John Fordiano” e che, proprio in questo addio, nonostante il vuoto interiore che si porta dietro, trova la sua forza. Star Wars: L’ascesa di Skywalker è un film che di sicuro non riesce a rispettare le attese che si era prefissato, probabilmente proprio a causa del peso mastodontico che una saga del genere antepone. Tuttavia, è proprio grazie alla potenza di questa saga che, nonostante la delusione e il disappunto degli spettatori, la macchina cinema, con l’inquadratura finale, si assicura e aggancia il suo pubblico (vecchio e nuovo) per nuovi spin-off di questo universo multi-espanso, che possano riportare i fan in una nuova avventura che si svolga «tanto tempo fa in una galassia lontana lontana…».