Sorry, We Missed You, recensione del nuovo film di Ken Loach

Sorry, We Missed You, recensione del nuovo film di Ken Loach

La 72a edizione del festival di Cannes, oltre a consacrare ottimi film come Parasite, ha visto in concorso opere di registi molto in avanti con l’età, da Bellocchio (Il traditore) ad Almodóvar (Dolor y gloria), giusto per citarne un paio. Ed all’interno di questa schiera di registi non possiamo fare a meno di notare l’ottantatreenne Ken Loach con la sua ultima opera, Sorry, We Missed You (trailer). Il regista inglese dopo tre anni fa ritorno a Newcastle, location del precedente Io, Daniel Blake, per trattare l’argomento della “gig economy” (modello economico basato su lavori part-time, gestiti autonomamente dal singolo lavoratore o da un’agenzia). Un progetto che, anche in questo caso, nasce da un lungo e minuzioso lavoro di raccolta dati (perlopiù interviste) portato avanti principalmente dallo sceneggiatore Paul Laverty.

Uno schermo nero ed una voce off ci introducono al protagonista Ricky (Kris Hitchen), nel bel mezzo di in un colloquio di lavoro. La carriera lavorativa di Ricky è stata profondamente segnata dalla crisi economico-finanziaria del 2008. Un evento che, da lì in poi, lo ha visto passare da un lavoro ad un altro, senza mai permettergli di trovare un’occasione per realizzare uno dei sogni della sua vita: acquistare una casa. Ora però, la possibilità di guadagnare facendo il corriere, unita agli sforzi di sua moglie Abby (Debbie Honeywood), una badante, sembra spingere Ricky a fare tutto pur di tirare avanti. A partire dalla vendita della macchina di Abby, vitale per raggiungere i vari luoghi di lavoro, per un furgoncino di sua proprietà, necessario a sua volta per iniziare questo nuovo lavoro. In questo quadro troveranno anche spazio le voci dei due figli della coppia: Seb (Rhys Stone) e Liza (Katie Proctor).

Quella che all’inizio appariva come una possibilità per risollervarsi ben presto si tramuterà in un’inarrestabile discesa nell’oblio, che farà ricadere sullo stesso Ricky le responsabilità di un inevitabile fallimento. Un fallimento segnato soprattutto, come il regista non tarda a sottolineare, da un sistema che, seppure veda al centro l’utilizzo di nuove tecnologie, non fa altro che portare avanti un concetto secolare come lo sfruttamento. E poco importerà se nostro figlio verrà arrestato o ci pesteranno a sangue: nulla potrà giustificare un ritardo o una mancata consegna. A poco a poco anche all’interno della famiglia le dinamiche cambieranno: i litigi si faranno sempre più accesi (principalmente tra Ricky e Seb).

E, purtroppo, con l’avanzare della storia anche Loach ne risentirà di queste conseguenze; nella seconda parte, infatti, si lascerà prendere da una passione spasmodicamente esagerata verso la causa, probabilmente anche grazie al copione di Laverty eccessivamente didascalico (scena del pestaggio ai danni di Ricky o anche il monologo del suo capo Maloney). Soprattutto per un avvertimento già chiaro da molto tempo al pubblico di Loach: la sinistra continuerà a fallire o, in generale, gli ideali progressisti sono destinati a fallire di fronte al capitalismo. Tanto da lasciar trasparire nel finale, come nel sopracitato Io, Daniel Blake, che in questi casi l’unica via d’uscita sia la morte.

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