Quando ci si trova di fronte ad un quadro, cristallizzate nel tempo e nello spazio della tela, le azioni dei protagonisti possono solo essere osservate, senza comprenderne le motivazioni, lasciandosi travolgere dalla bellezza delle forme. Di questo tipo di arte sembra essere impregnata Ripley (trailer), miniserie ideata e diretta dal regista premio Oscar Steven Zaillian, disponibile su Netflix.
Si tratta della storia di Tom Ripley, inafferrabile truffatore che vive alla giornata tra la riscossione di crediti che non gli spetterebbero e documenti falsi. Un giorno, viene intercettato e assunto da Mr Greenleaf (Johnny Flynn), un proprietario di cantieri navali, per trovare e riportare a casa il figlio Richard, partito per l’Italia anni prima. Una volta però assaporata la vita agiata che Dickie conduce lontano da New York, ne rimane talmente affascinato da fare di tutto per prendere il suo posto. Anche uccidere.
La piattaforma propone il classico schema del remake recentemente visto con One Day: la serie prende le mosse dall’omonimo romanzo di Patricia Highsmith, lo stesso alla base del film Il talento di Mr Ripley di Anthony Minghella (1999), con protagonisti Matt Damon, Jude Law e Gwyneth Paltrow. Il risultato è, però, un raffinato connubio tra l’eleganza della tecnica e un nuovo modo di leggere una storia oltremodo conosciuta.
Il Ripley di Andrew Scott è algido, controllato, quasi artificiale. Un Giano bifronte moderno, come suggerito dalle numerose inquadrature di spalle del protagonista. Basterebbe indugiare un secondo in più per vederlo girarsi e mostrare il suo vero volto. L’attore irlandese, di recente sullo schermo con il commovente All Of Us Strangers, sembra qui condensare tutte le sue interpretazioni precedenti (basti pensare al Moriarty di Sherlock) ed elevarle. A differenza infatti di Matt Damon, porta in scena un Tom più maturo, spinto unicamente dalla sete di agiatezza. Non c’è spazio per i sentimenti, l’espressione neutra del suo viso è spesso costellata da un sorriso accomodante, quasi strafottente. Un manipolatore senza scrupoli travestito da people pleaser. Non è, però, un uomo nato per uccidere: commette diversi errori, ma può contare sulla lucida capacità di analizzare ogni situazione e piegare la realtà alle proprie esigenze.
L’unico elemento quasi umanizzante del protagonista è l’attrazione che prova verso l’arte. Tom sembra nutrirsi delle tele che osserva, usa le immagini come uno specchio per comprendere le proprie azioni. Non è un caso, probabilmente, se l’unico istante in cui sembra provare delle emozioni sia la reazione di fronte al Davide con la testa di Golia: Tom si identifica in maniera quasi ossessiva con la figura di Caravaggio, fino quasi a far coincidere le due figure. Forse l’incarnazione della convinzione per cui l’arte anticipa all’uomo la realtà con cui presto si scontrerà.
Accanto a lui, Johnny Flynn dà il volto ad un Dickie che incarna l’epicurea utopia del turista americano che sbarca sulla penisola. Dakota Fanning è Marge, la fidanzata del giovane Greenleaf, la prima a dubitare della verità della versione di Ripley. Il cast è poi impreziosito da numerosi attori italiani, tra cui spicca Maurizio Lombardi, che interpreta Pietro Rapini, perfetta incarnazione del detective della tradizione noir, sigarette e taccuino alla mano compresi. E Margherita Buy, nei panni di un’insolita e malinconica padrona di casa romana, forse l’unica che tenta di comprendere Tom come un semplice essere umano.
Ad accentuare l’alone di mistero intorno alla storia è la scelta del regista di girare l’intera serie in bianco e nero. Un omaggio al cinema degli anni coevi alla narrazione, uno stile che permette di giocare sul chiaroscuro, sulle ombre. Ripley è applicazione di un manuale d’istruzione del cinema hard-boiled, noir e thriller: le continue inquadrature alle scale concentriche sono un chiaro riferimento ad Hitchcock, l’ambientazione in città cupe e piovose un classico della produzione di genere.
La peculiarità più strabiliante è però l’attenzione ai dettagli: ogni inquadratura, ogni oggetto in scena sembra dare corpo alla verità della storia raccontata, perfino il gatto Lucio. La narrazione procede per la maggior parte con dialoghi in lingua italiana, quasi un tentativo di entrare in simbiosi con la cultura da ammirare e rappresentare. Ognuno è un tassello di puzzle indispensabile per costruire il raffinato quadro d’insieme composto dal direttore della fotografia Robert Elswit, già premio Oscar per Il Petroliere. La maniacale follia di Tom è, ad esempio, descritta nelle scene in cui si occupa di ripulire le scene del delitto. I gesti meccanici del procedimento sono ripresi fotogramma per fotogramma, come se si andasse a conquistare, metro dopo metro, la consapevolezza della vera natura del personaggio.
L’Italia entra in punta di piedi con le immagini da cartolina in cui quasi l’intera narrazione è immersa. L’atmosfera onirica del nostro paese, reminiscenza felliniana, è però costruita a livello uditivo. Le note dei principali interpreti degli anni Sessanta (Mina, Fred Buscaglione, Tony Renis) impregnano, quasi in filodiffusione, le strade vuote di Atrani, Roma, Napoli e Venezia. L’aspetto più spettrale sta qui: il silenzio che avvolge le città, nessuno sfarzo e nessuna elegante festa negli anni del mitico boom economico.
Non è possibile entrare in empatia con le vicende, sarebbe insano, né forse era indispensabile lavorare sull’ennesimo remake. Certamente però Ripley è una serie necessaria. Permette di riscoprire il piacere di seguire, episodio dopo episodio, una storia in cui si equilibrano un’accurata composizione ricca di suspense, l’attenzione al dettaglio e interpretazioni precise. Lo spettatore non riesce a giudicare l’operato terribile del protagonista, diventa osservatore e quasi complice silenzioso. La serie porta in una dimensione ulteriore la dicotomia tra cinema e piattaforme, che si sfiorano sempre più in una preziosa trasposizione. O forse è l’ennesimo frutto dell’inganno dell’abile Tom Ripley?