Coincidenze d’amore, la recensione: Meg Ryan torna con un monologo a due

coincidenze d'amore, la recensione del ritorno in sala di Meg Ryan

Due fiocchi di neve si avvicinano. Danzano in un candido cielo invernale. Si allontanano, anche se forse hanno ancora qualcosa da dirsi. Inizia così Coincidenze d’amore (trailer), il nuovo film di e con Meg Ryan. Questa tenera metafora anticipa i due protagonisti della storia che sta per esserci raccontata. Anzi, detta.

29 febbraio 20**. Un giorno magico. Willa Davis (Meg Ryan) e William Davis (David Duchovny) si incontrano in aeroporto, in attesa di prendere le rispettive coincidenze. I due W. Davis non sono entusiasti di vedersi, per via della loro passata relazione sentimentale. Caso vuole che, per via di una bufera, tutti i voli in partenza vengono prima ritardati e poi annullati. Costretti in questo aeroporto sempre più surreale, i due affrontano finalmente le questioni che portarono alla loro brusca rottura.

Le cose da dirsi sono tante. Le ferite, ancora aperte, sono dolorose. Il confronto, però, non ha la forza necessaria per curare queste ferite. Questo è il difetto principale di Coincidenze d’amore. Manca un vero conflitto fra due personaggi che si vogliono ancora bene, ma si sono fatti molto male. Emergono, anche se a stento, i tormentosi problemi del passato, profondi, credibili. Sono verosimili anche le reazioni e i comportamenti dei personaggi, coerenti con le loro caratterizzazioni. Il punto è che tutto ciò che si dicono, tutte le conversazioni che hanno in questa presunta notte di purificazione non hanno potere catartico. Le questioni tirate in ballo sono complesse, ma si risolvono in maniera troppo semplice. Non bastano un’ora e mezza di questi dialoghi per curare le ferite dei W. Davis.

Non si scava abbastanza a fondo in Coincidenze d’amore, costruito come un lungo monologo teatrale a due. Che coincidenza: si tratta di un adattamento di una pièce teatrale (Shooting Star, di Steven Dietz). Altra coincidenza: fra gli sceneggiatori ci sono due drammaturghi. Coincidenza delle coincidenze: uno dei due è Steven Dietz. A posteriori, l’includere l’autore originale si è rivelato più un errore che una scelta azzeccata. L’impianto teatrale si sente in maniera pesante: il film è una continua conversazione, dall’inizio alla fine. In alcuni momenti si raggiungono picchi interessanti, ma buona parte di questi dialoghi è ripetitiva, spenta, monotona. Dicono poco dei W. Davis, fatta eccezione per alcuni rari, ma consistenti, momenti di caratterizzazione. Solo quando si parla delle scelte e delle azioni del passato le parole donano tridimensionalità a personaggi altrimenti piatti.

L’elemento più cinematografico del film è l’ambientazione. L’aeroporto, tipico non-luogo della modernità, diventa luogo. Gli viene conferita un’anima surreale e magica. Le soluzioni adottate per raggiungere questo risultato non sono sempre perfette, ma fanno sorridere, commuovere, emozionare. E non sono (solo) i dialoghi a caratterizzare questo aeroporto: è esso stesso ad agire, a mostrarsi come un ente vivo e cosciente. Lo spettatore vede azioni, non sente parole: e, così, vede l’aeroporto come personaggio. Questa atmosfera magica si lega all’eccentrica e alternativa Wilhelmina Davis. Meg Ryan crea un film cucito attorno a questo personaggio, interpretato con esperienza, ma soprattutto cuore (la dedica finale all’amica e maestra Nora Ephron lo conferma).

Meg Ryan torna in sala con un omaggio appassionato alla magia dell’amore. La tenerezza dei due personaggi compensa un impianto teatrale evidente, a tratti ingombrante. Grazie alle interpretazioni dei due attori protagonisti, coinvolgimento ed emozione sono assicurati, purché si sia pronti ad ascoltare.

Al cinema dall’11 aprile.

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