I’m Thinking of Ending Things, la recensione: il gioco di specchi di Kaufman

I'm thinking of ending things

Decostruzione, pratica di smontaggio. Apogeo pessimistico del rapporto tra epifania, sogno e ricordo. Gioco di specchi, dove il doppio incerto sovrasta sulla certezza del reale. Potenza degli effetti psicofisici del linguaggio cinematografico. Trionfo dell’epistemologia sull’ontologia stessa del cinema e del ruolo spettatoriale. Se si avesse la necessità di descrivere fugacemente I’m Thinking of Ending Things (ultima “opera” diretta e scritta da Charlie Kaufman e disponibile su Netflix) forse queste cinque brevi frasi non basterebbero a ricoprire neanche una minima percentuale della complessità del meccanismo attuato in questo film (qui il trailer).

Partendo dall’omonimo romanzo di Ian Reid, l’idea di base è fortemente strindberghiana: la ricerca dell’uomo di rappresentare l’esistenza umana, in tutto il suo cinismo e in tutta la sua brutalità. Lo spunto è il viaggio di una donna per andare a trovare i genitori anziani e malati del proprio ragazzo, che ormai non ama più. Viaggio che apre a diversi discorsi, sulla pittura, sulla poesia, sulla letteratura, sulla fisica, sulla fotografia, sul teatro, ecc. Tutti discorsi che però Kaufman media abilmente verso una dissertazione sull’ontologia del cinema stesso, che, all’interno della sceneggiatura, funge più volte da pinza, ovvero da elemento che, pur sembrando ininfluente, si rivela essenziale. Essenziale non solamente perché appare esplicitamente nelle battute di dialogo ogni qual volta la storia si sta avvicinando a un punto di svolta, ma anche proprio per la comprensione stessa del film e della sua significazione (del suo rapporto tra significato e significante). In questi termini, diventa fondamentale il riferimento che Kaufman fa a Bergman (e al suo Il posto delle fragole) nella sequenza iniziale.

I'm thinking of ending things

Similmente all’opera bergmaniana, I’m Thinking of Ending Things si apre con una scena linguisticamente onirica. Linguisticamente onirica per l’uso massivo delle sovraimpressioni, modalità che unisce le immagini soprattutto durante la fase del sonno REM e che, non a caso, è usata durante il film solo in questa sequenza e in quella finale. La danza di queste immagini è accompagnata dall’utilizzo del voice over, o meglio di un flusso ininterrotto di coscienza, che mixa pensieri inconsci a dati fattuali (in realtà, mere speranze represse) e funge, nel suo complesso, tanto in Bergman quanto in Kaufman, da introduzione semantica al lungo viaggio in macchina. Viaggio sia fisico che interiore che serve per dare l’avvio a un’accurata meditazione sul senso stesso dell’esistenza umana. Tale riflessione, in I’m Thinking of Ending Things, ne ingloba un’altra legata ai procedimenti stilistici del cinema e alla crisi stessa dello spettatore e della sua concezione sull’arte cinematografica in epoca postmoderna. In ciò diventa pregnante, ancor di più, il suo richiamo esplicito non solo a Bergman, ma anche a Il viandante sul mare di nebbia di Friedrich. Simboli, entrambi, di un’arte misteriosa e sfuggente, che «può essere raggiunta solo attraverso l’invenzione, l’immaginazione e la stilizzazione» (W. Herzog).

Questa stilizzazione viene enfatizzata dal montaggio, che si focalizza sulle ripetizioni, senza tagliare gli errori (emblematica in tal senso è la scena in cui la protagonista s’inceppa nel parlare per un minutaggio relativamente ampio), e dalla recitazione. In particolare, quest’ultima è visivamente teatrale, finta, ma soprattutto meccanica. Meccanico è, infatti, il modo in cui l’attrice si gira di scatto ogni qualvolta la macchina da presa indugia in inquadrature particolarmente voyeuristiche e spinte. Lo sguardo, tanto della macchina da presa quanto della protagonista, diventa così fondamentale. D’altronde, il rimando alla stessa visione spettatoriale è marcato profondamente da Kaufman, che durante un’inquadratura statica, fa muovere lo sguardo della protagonista verso il centro dell’obiettivo, intrappolando così lo spettatore in un contatto diretto ed estraniante. Tuttavia, tale uso del linguaggio cinematografico, già denso di per sé di significati, aumenta la propria rilevanza in correlazione a un frame precedente, in cui il personaggio principale tenta di guardarsi nello specchietto della macchina. Specchietto che, non a caso, risulta frantumato.

Se in un’ottica lacaniana, il bambino ha la possibilità di riconoscere se stesso e di distinguere il sé dall’altro (il simbolico dall’immaginario), vedendo la propria immagine riflessa, tale opportunità in I’m Thinking of Ending Things viene negata. La protagonista cade così in uno stadio dissociato e smaterializzato. Stadio autistico che, nello studio su Duchamp, Rosalind Krauss associa alla regressione del linguaggio nell’arte contemporanea. In questa logica semantica, diventa significativo anche l’uso del carattere utilizzato per il titolo che, ricordando lo stesso carattere delle definizioni presenti sul dizionario, rimanda alla Proto-Investigation di Kosuth, che non a caso s’interrogava sul concetto stesso di arte, come spazio riservato alla riflessione dello spettatore. Spettatore immerso in una complessa onda mediale, entro la quale, come nel film stesso, coagulano riferimenti alla natura tecnica del cinema, alla pittura, alla fotografia, alla poesia, al teatro e anche alla rete dei social media (basti pensare al frammento ironico dove appare “Directed by Robert Zemeckis”).

I'm thinking of ending things

I’m Thinking of Ending Things diventa così manifesto di un cinema sempre più conscio dei propri meccanismi e che usa tale consapevolezza per interrogarsi sulla realtà della propria natura e sui movimenti più intimi della percezione filmica. Tuttavia, Kaufman in I’m Thinking of Ending Things indaga senza affermare alcuna verità. Fa sperare in una risposta, lasciando però lo spettatore in un bilico angosciante, che mette al centro l’incomunicabilità e la dissociazione che i personaggi hanno con se stessi, con il mondo circostante e anche con il proprio pubblico. Un pubblico che non deve più essere quello dell’unica visione in sala, ma un pubblico del “noleggio audiovisivo”. Un pubblico che, in un costante processo di decostruzione, è chiamato al rewind, alla ricerca di un’analisi sempre più profonda che possa svelare la natura del mezzo cinematografico, ma ancor di più la natura profondamente in crisi e frantumata dello stesso spettatore contemporaneo.

Ti potrebbero piacere anche

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Ho letto la privacy policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali ai sensi del Regolamento Europeo 2016/679 (GDPR) e del D.Lgs. n. 196 del 2003 cosi come novellato dal D.Lgs. n. 101/2018.