Flee, la recensione: l’immigrazione nel cinema d’animazione

Flee film recensione per Dasscinemag 01

Presentato al Sundence Film Festival del gennaio 2021, Flee (trailer) di Jonas Poher Rasmussen è un monumento artistico che esplora le potenzialità del medium cinema per lanciare anche un appello di solidarietà globale. Specialmente oggi, in un mondo tragicamente sconvolto dalla guerra Russia e Ucraina, questo docufilm di produzione danese supera l’intrinseco suo proposito di parabola socialmente e politicamente impegnata – Amin Nawabi racconta al regista e amico Jonas Poher Rasmussen la storia di come lui da immigrato clandestino sia arrivato a Copenaghen – e apre, di conseguenza, le porte ad una meta-narrazione sull’attualissima tragedia degli oppressi. Sebbene il film racconti l’odissea realmente vissuta di un immigrato afghano nei primissimi anni Novanta del secolo scorso, è infatti quanto mai impossibile non rimandare la nostra attenzione anche all’indicibile sofferenza a cui è costretto il popolo ucraino nel nostro contemporaneo.

Dalle fiamme della guerra civile anni ottanta tra Repubblica Democratica dell’Afghanistan e il gruppo mujaheddin di guerriglieri (rispettivamente sostenuti da URSS e USA) nasce la storia di un giovanissimo Amin, prima bambino e poi adolescente, costretto a fuggire dall’Afghanistan assieme alla famiglia per trovare un posto migliore in cui vivere. Le conversazioni tra Amin e Jonas sono il set perfetto da cui può svilupparsi il racconto del protagonista; la sua storia alterna i diversi momenti di un gigantesco flashback in disegni animati con un tempo presente altrettanto “colorato” e riprese reali dei telegiornali dell’epoca. Molto vicino ad una seduta di psicoterapia, l’animazione va configurandosi come il ritorno di un rimosso e di una coscienza sofferente chiamata finalmente a metabolizzare il trauma.

Il viaggio di recupero della memoria è così sia il tentativo del regista di documentare la tragedia di quel popolo afghano emigrante e sia la coraggiosa prova di un singolo che deve prima smuovere l’interiorità al fine poi di trovare una tranquillità precedentemente negata. Il percorso di Amin è un’odissea infinita di prevaricazioni, abbandono e terrorismo psicologico – terrificanti sono le scene della nave clandestina e di uno stupro annunciato ai danni di una dissidente politica da parte della polizia russa – così incredibilmente percepibili nonostante la confezione animata dell’opera. Qui, i primi piani di Amin adulto che racconta ad occhi chiusi mentre è sdraiato sul letto si fanno unici e potenti. L’unica scelta dello spettatore è assistere impotente e quieto.

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La già difficile accettazione di un passato di oppressioni procede di pari passo alla lirica esplorazione della propria sessualità. A tal proposito bellissima è la scena di presentazione del protagonista: il bambino Amin corre sorridente per le strade di Kabul indossando il completino azzurro di una delle sue sorelle mentre suona nel film Take on Me (1985) degli a-ah norvegesi. Con questa prima scena assolutamente cruciale la musica da un lato imposta la tensione del popolo afghano verso l’Occidente (e qui la presa di distanza dell’Afghanistan dalla Russia tra le altre cose) e dall’altro richiama il tema della libertà già presente nel videoclip dedicato alla canzone. Come la ragazza del videoclip è accompagnata nel mondo del fumetto da un motociclista che prima le fa l’occhiolino e poi le tende la mano, allo stesso modo Amin e la città di Kabul scivolano nel disegno animato una volta che il film ha impostato dove ci troviamo.

Take on me in Flee diventa la chiave d’accesso per viaggiare in un mondo disegnato in cui albergano tanto i mostri che l’immaginazione più feconda; la carica erotica di Jean Claude Van Damme (e ancora l’Occidente) percuote l’animo di Amin, specie quando la figura dell’attore si anima da un poster o dalla televisione e ammicca al giovane. L’esplorazione della propria omosessualità continua anche durante il traumatico periodo della clandestinità e questa esplorazione è semplicemente poetica: l’occhiolino che gli fa il poster di Van Damme è il primo passo di una scalinata a più piani che passa da momenti di fisico desiderio (Amin guarda due ragazzi all’apertura del primo McDonald di Mosca dopo il crollo del muro di Berlino) ad una commovente risoluzione con sorriso (la scena in disco è il coronamento di un percorso).

Flee di Jonas Poher Rasmussen è una toccante seduta di psicoterapia in cui l’animazione si fa promotrice necessaria del recupero di una memoria individuale (quella di Amin) e collettiva (quella del popolo afghano). Mai scontato nella forma e nella sceneggiatura, la storia mostrataci nel film danese potrebbe essere benissimo quella di un qualunque oppresso; viviamo oggi la terribile guerra Russia-Ucraina che ci lascia immaginare quanti possibili Amin attraversino tragici momenti come quelli “proposti” da Flee. In conclusione, l’opera del regista Rasmussen è incredibile docufilm che sicuramente inorridisce lo spettatore nel momento in cui si mostrano gli abusi i soprusi e le discriminazioni di una clandestinità allo stremo, ma che inoltre non manca efficacemente di entusiasmare quando i grandi pezzi di una vita infranta vanno a ricomporsi in onore di un futuro migliore.

Al cinema dal 10 marzo.

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