Close, la recensione: il dolore della perdita

In Girl, Lukas Dhont, alla sua opera prima, aveva messo in scena un coming of age che seguiva il processo di transizione di una transgender mettendo in primo piano il corpo. Anche in Close (trailer), vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria alla 75esima edizione del Festival di Cannes, il corpo (e i corpi) sembrano avere un ruolo centrale. Seguiamo infatti due tredicenni, Leo (Eden Dambrine) e Rémi (Gustav de Waele), amici da sempre e legati da un affetto profondo che non hanno problema a manifestare. Scherzano, immaginano storie e corrono (ormai un topos da I quattrocento colpi di Truffaut) in una campagna che sembra configurarsi come un luogo idilliaco al di fuori dal mondo, spesso ritratta con una palette cromatica dai colori caldi e accesi. Dhont spesso tiene l’obiettivo attaccato ai volti dei protagonisti, per coglierne le emozioni più impercettibili e restituire allo spettatore quello che sembra essere uno sguardo desiderante. Questo almeno fino a quando con quella realtà non iniziano a scontrarsi.

L’inizio della scuola coincide con la messa in crisi del loro rapporto nel momento in cui alcuni compagni di classe iniziano a fare allusioni che spingono Leo a prendere le distanze dall’amico. Quei corpi che prima cercavano costantemente il contatto adesso iniziano ad allontanarsi, e questo allontanamento è tanto più doloroso quanto più privo di spiegazione. Oppure il contatto inizia a trasformarsi in aggressività. Ci troviamo nuovamente di fronte a una riflessione sull’identità, su un’innocenza quasi edenica che viene messa in crisi da un mondo ostile che deve necessariamente incasellare in una data categoria tutto quello che incontra, ignorando ciò che questo potrebbe comportare. Ma anche una riflessione sul peso di un’ideale di mascolinità secondo il quale i giovani devono prendere le distanze dalle emozioni, essere competitivi e indipendenti. Il fatto che Leo decida di iniziare a praticare hockey su ghiaccio è indicativo di tutto questo.

Ecco però che l’accorrere di un tragico evento destinato a cambiare la vita di tutti sposta il film su un altro binario, quello dell’elaborazione del lutto, di un peso con cui si dovrà convivere per il resto della propria vita, e non ultimo sull’incapacità di comunicare ciò che si prova e di nasconderlo al mondo esterno. Il tono cambia, si fa più cupo, così come inizia a prevalere un’illuminazione che predilige colori più scuri. Ma è proprio in questo momento che iniziano ad emergere i problemi. Dhont non riesce a trovare un equilibrio tra tutte le questioni messe in gioco, tanto che tutto quello che è stato tematizzato nei primi 40 minuti finisce per essere fagocitato dal twist che apre alla seconda parte. E se è indubbia l’abilità nel dirigere gli attori (soprattutto i più giovani) e nel cogliere la fragilità dei personaggi, dall’altro inizia a fare affidamento su un simbolismo didascalico (i fiori sono allo stesso tempo simbolo di fragilità e dello scorrere del tempo; un braccio rotto e la sua successiva guarigione sembra rinviare allo stesso percorso di maturazione di Leo) e sulla ricerca di squarci poetici che appesantiscono inutilmente la visione.

Ma soprattutto si ha la costante impressione che tra una messa in scena controllata e consapevole del dolore (la “giusta distanza”) e il piagnisteo retorico e finanche manipolatorio (si veda la soggettiva di Leo accompagnata da uno zoom-in sul volto di Sophie – Emilie Dequenne -, madre di Rémi) il passo sia breve e che il regista non sia ancora in grado di gestire un materiale così complesso. Certo, è comunque un’opera seconda, che notoriamente è la più difficile per un giovane autore in cerca di affermazione, proprio perché quella della conferma, ma dopo il riuscito Girl era lecito aspettarsi di più. E se il premio vinto a Cannes è stato a dir poco generoso, il film sembra anche lanciatissimo verso una (immeritata) candidatura all’Oscar per il Miglior Film Internazionale.

In sala dal 4 gennaio 2023.

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