#Cannes76: Indiana Jones e il quadrante del destino, la recensione del film di James Mangold

Indiana Jones and the Dial of Destiny recensione del film di James Mangold Dasscinemag

Harrison Ford ritorna nei panni di Indiana Jones per l’ultima volta senza Lawrence Kasdan alla sceneggiatura e senza Steven Spielberg alla regia, vecchio, stanco, sveglio ed un po’ brontolone per un film ambiguo che non si riesce a capire se vuole essere un commiato o il tentativo timido e incerto di una rigenerazione del franchise.

I primi minuti di Indiana Jones e il quadrante del destino (trailer) si ambientano nel passato della serie e vedono un Harrison Ford generato digitalmente rimodellando le immagini di repertorio degli anni 80; non si tratta della semplice computer grafica con cui avevamo visto tornare in vita Peter Cushing o tornare giovane Carrie Fisher in Rogue One, ma di una tecnica nuova sperimentata per la prima volta in Russia nel film di Aleksandr Sokurov Fairytale, che utilizza esclusivamente materiali d’archivio senza l’uso di deep fake o altri mezzi di intelligenza artificiale. Sebbene l’esperimento sia interessante, alla fine del complesso lavoro bisogna pur sempre inserire un volto talvolta in un corpo diverso, talvolta in un contesto diverso, e per quanto sia avanzato come sistema, il movimento degli occhi sulla scena o della testa rispetto al corpo tradiscono ancora molto spesso la loro artificialità obbligando lo spettatore a rilevare l’anomalia.

Le scene del passato servono ad introdurci il contesto degli anni 60 in cui si svolgerà in effetti il racconto, una situazione narrativa in cui ci viene mostrato Indiana/Harrison in tutta la sua fragilità fisica di vecchio in mutande armato di mazza da baseball mentre si lamenta con i giovani vicini hippie del frastuono di una festa nel giorno dell’allunaggio da parte della NASA. L’uomo raggiunge la luna e il nostro Indiana Jones festeggia con i colleghi universitari la pensione, naturalmente le cose non andranno così e poco dopo ecco arrivare una giovane sfacciata e avventurosa (Phoebe Waller-Bridge) che vorrebbe rimettere il cappello al nostro eroe per un’ultima grande avventura.

Se da una parte il regista James Mangold vuole evidenziare il corpo di Ford, l’età di Indiana e la decadenza dell’eroe con alcune gag ed alcune sequenze, dall’altra sa di non poter avvilire fino in fondo il personaggio che riuscirà a fuggire da neonazisti di 25 anni più giovani di lui, fisicamente al massimo della forma ed armati fino ai denti con cazzotti, calci ed una fuga a cavallo nel bel mezzo di una parata che si chiude in metropolitana con una sovrapposizione del volto di Ford al cavaliere che non può che essere considerata imbarazzante visti i mezzi economici a disposizione.

Mangold sembra vivere nell’eterno dilemma di onorare lo schema della serie e fare un buon film del filone oppure forzare verso l’età che avanza e creare una situazione grottesca e comica, sceglie quindi di stare eternamente nel mezzo lasciando perplessità e qualche delusione. Anche la regia in generale è curiosamente anonima, forse una decisione strategica, perfino classica e così in forte antitesi con quella di Spielberg che rispettando i canoni del genere classico li rivoluzionava proprio attraverso le sue scelte registiche. In parte Mangold mantiene la regia di Spielberg, il susseguirsi di colpi di scena, la natura complessa e sempre rocambolesca delle fughe o degli inseguimenti, volendo contentare il pubblico nostalgico e rendere omaggio al lavoro fatto nei film precedenti, ma questa sua inibizione formale e questa sua incertezza nel formato finale dell’opera rendono il film una sbiadita fotocopia dei precedenti, facilmente assimilabile al quarto film ma difficilmente paragonabile ai primi tre.

L’altro problema che ci costringe a separare gli ultimi due film della saga dai primi tre si trova nella soluzione finale dei racconti: nei primi tre film esisteva sempre una sorta di spiritualità, un misticismo spettacolare che giocava con i sentimenti dello spettatore collocandolo fra il credo e non credo del potere ancestrale del passato. L’arca dell’alleanza de I predatori dell’arca perduta era un gioco raffinatissimo fra la mitologia religiosa ebraica, i racconti d’avventura dei primi del 900 ed il cinema di genere che gioca con miti e simbologie della spiritualità moderna. Nel secondo film Indiana Jones e il tempio maledetto, prequel del primo, si giocava con il politeismo, il satanismo, le paure tribali e lo sciamanesimo lasciando sempre quell’ambiguità fra paranormale e suggestione. Nel terzo film Indiana Jones e l’ultima crociata, forse il più debole dei tre che già mostrava un po’ troppo la stanchezza del formato, oltre al gioco extradiegetico di avere Sean Connery alias James Bond come padre di Jones, che già poteva valere come regalo finale e commiato della serie, ci trovavamo di fronte addirittura al santo Graal, icona assoluta della mitologia cinematografica occidentale.

Questa spiritualità giocosa, questo saltare fra cultura archeologica, misticismo e momenti da B-movie degli anni 50 caratterizzano i primi tre film in modo fortemente iconico, dando spazio ad una vera onda di epigoni che finisce per segnare una pagina di storia del cinema. Dal quarto film questo gioco è stato sostituito da altri elementi paranormali più fantasy, meno complessi per il rapporto con i culti religiosi e un po’ meno colti, si passa dunque agli alieni del quarto film e per questo capitolo al viaggio nel tempo che uccide definitivamente qualsiasi relazione con i film precedenti.

La presenza di Phoebe Waller-Bridge, un nome piuttosto promettente nel panorama nordamericano, non aiuta a salvare il film. La sua Helena Shaw è a tratti petulante, ambigua, maleducata e fin troppo sicura di sé, una figura che fin dalle prime scene sembra essere inserita con troppa forza nella dinamica del racconto ed è spesso poco credibile nei suoi cambiamenti o nelle sue evoluzioni, che restituiscono la sensazione che debba evolvere per ragioni di economia della scrittura ma senza delle motivazioni davvero credibili nella diegetica della storia.

Infine fa sempre piacere vedere al lavoro il perturbante Mads Mikkelsen, che qui raggiunge un vero record: si tratta infatti dell’unico attore ad aver preso parte a tutti i più grandi franchise della Hollywood contemporanea, da Star Wars alla Marvel, da Harry Potter a Indiana Jones. Alla carriera di Mikkelsen mancano solo Lords of the Rings e forse Star Trek per risultare presente in tutto ciò che è il prodotto forte nerd del decennio. Purtroppo anche l’attore nel film sembra un po’ lasciato al suo destino, un villain di tutto rispetto, un nazista coi fiocchi, così come piace ai fan di Indiana Jones, di quelli che è sempre un piacere veder morire in atroci sofferenze; eppure anche lui sembra vittima della paura di Mangold e il suo personaggio resta sempre un po’ prigioniero sospeso dei film precedenti e limitato dal timore di poter cambiare troppo la formula finale.

Con Indiana Jones e il quadrante del destino Siamo davanti ad un film tributo, che saluta un eroe e dimostra di non sapere ancora dove andare per il futuro (anche se alcuni elementi della trama come la lancia di Longinus o le invenzioni di Archimede sembrano essere lì per essere esplorate in seguito da possibili eredi), un film difficile che vuole rassicurare le generazioni x ed y sul rispetto dei canoni ma che ancora non ha capito come agganciare la generazione z, che sembra un po’ esclusa dal prodotto. Il problema è che per molti nostalgici il film arriva tardi e senza i nomi necessari ad una vera rimpatriata, nessuno forse voleva davvero vedere Indiana Jones vecchio e in mutande che vacilla per casa disturbato dagli anni 60.

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