Briganti, la recensione della nuova serie su Netflix

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Prendete le riflessioni de Il Gattopardo sulla questione meridionale. Aggiungete un’ambientazione post-risorgimentale vista con l’estetica di Sergio Leone. Aggiungete una banda di criminali tipo quelle di Gomorra e Suburra. Togliete le riflessioni di prima e avrete Briganti (trailer), la nuova spettacolare serie d’azione Netflix.

La serie ideata dal collettivo GRAMS (i creatori di Baby) è ambientata nel Sud dell’Italia postunitaria. Scegliendo fra la ventina di personaggi presentati, tre protagonisti potrebbero essere Filomena De Marco (Michela De Rossi), Giuseppe Schiavone (Marlon Joubert), Michelina Di Cesare (Matilde Lutz). In sei puntate non è facile approfondire tutti questi personaggi. E infatti, Briganti non lo fa. Nessuno dei protagonisti emerge e cattura il cuore dello spettatore. Manca il tempo per scavare nella personalità di questi caratteri, soffocati dalla sequela infinita di eventi che si susseguono. Le prove attoriali si regolano su questi personaggi abbastanza piatti, risultando superficiali e dimenticabili. Difetto grave per una serie, che si dovrebbe basare molto sul carisma dei protagonisti, dato anche dal lavoro degli interpreti. Un’eccezione: Leon de la Vallée, piacevole sorpresa.

Se da un lato l’intreccio rende i personaggi schiavi del suo ritmo martellante, dall’altro è indubbiamente appassionante. Riassumendo, la vicenda ruota attorno all’oro del Sud nascosto nelle terre del Meridione, bramato da tutti i personaggi. Per trovare questo oggetto del desiderio si innesca un domino di alleanze, tradimenti, accordi stretti e infranti nel giro di due scene, fino ad un epico scontro finale tra briganti ed esercito italiano – anzi, piemontese. Questa attenzione all’intreccio è l’elemento principale che rende Briganti una serie d’azione in cui la finzione racconta la Storia secondo stilemi e logiche del genere. La realtà storica viene modificata ed esagerata per ottenere un’azione più adrenalinica e coinvolgente.

Il lavoro del collettivo GRAMS dal punto di vista tecnico va in una direzione ben precisa: spettacolo e azione. Con uno sguardo alle estetiche degli spaghetti-western – in particolare ai personaggi sporchi, sudati e violenti di Leone – si racconta un mondo in cui non ci sono buoni e cattivi. Sono tutti criminali, tutti colpevoli. Tutti sono disposti a tutto. Questo impedisce un’immedesimazione completa in uno qualsiasi dei protagonisti, ma inserisce Briganti in un filone ben consolidato della serialità italiana: quello di Romanzo Criminale, Gomorra, Suburra, in cui i protagonisti sono degli anti-eroi che agiscono solo per il loro interesse personale. Tutte le loro azioni violente sono rappresentate senza censure. Anzi, si spinge molto sulla spettacolarizzazione di questa violenza, senza mai uscire dal recinto formale della Netflix di oggi. Purtroppo, questo limite direttivo si nota troppo spesso, in particolare nell’uso del teal&orange, ormai onnipresente nei prodotti del catalogo.

Un altro elemento che codifica questa serie come una serie di genere è l’assenza di una profonda riflessione critica sui temi trattati. La questione meridionale è rappresentata: le terre del Sud sono arretrate, popolate perlopiù da contadini, mentre il Regno Italiano è il regno invasore, che vuole le risorse di questi territori (come l’oro del Sud). La serie, quindi, è consapevole delle problematiche dell’evento storico trattato, mostrando di conoscere le riflessioni fatte in passato a riguardo. Più volte i personaggi dicono cose che ricordano i pensieri lucidi di Tomasi di Lampedusa espressi ne Il gattopardo (Schiavone è un Tancredi più povero e meno fortunato). Oppure, i piemontesi la pensano come i soldati della Repubblica nel secondo dopoguerra in Salvatore Giuliano. Tuttavia, manca la critica sociale vera e propria de Il Gattopardo, come manca l’operazione di inchiesta di Francesco Rosi.

Queste, però, non sono mancanze: sono scelte. Briganti sceglie di raccontare questa storia senza porre l’attenzione sul messaggio, bensì sull’intreccio. Si vuole parlare dei briganti senza (per forza) esporre un pensiero critico sulla questione meridionale, come un saggio storico. Senza riportare luce su eventi oscuri, come un documentario. L’obiettivo è raccontare la storia di questi personaggi per il piacere di raccontarla, come una serie d’azione. Per questo si seguono i canoni del genere, rivisitando la realtà storica dei fatti. Briganti racconta la sua realtà, con la sua violenza kitsch e il suo ritmo asfissiante che ci fa riflettere solo su come andrà a finire.

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