ALLA RICERCA DELLA MERCIFICAZIONE DEL MALE

Il terrorismo dalla sua nascita è stato un elemento di grande fascino nella rappresentazione filmica, tanto che è possibile ritrovarlo in tutte le epoche cinematografiche. Soprattutto perché non esiste terrorismo senza violenza, e quest’ultima è uno degli elementi chiave di successo per un film. Ma cos’è il terrorismo? È un moto rivoluzionario verso un qualcosa, una sorta di mezzo di comunicazione brutale della violenza, della percezione e della memoria degli eventi accaduti tra il 1969 (Strage di piazza Fontana) e il 1992 (data della morte di Paolo Borsellino), attraversando quindi sia il terrorismo che le morti per mano della mafia. L’Italia dall’inizio della Repubblica ha dovuto affrontare diversi problemi, legati soprattutto agli estremismi politici che praticavano il terrorismo e la strategia di tensione politica, guidati da ideologie sbagliate (da una parte i neofascisti e dall’altro i comunisti).

L’arte cinematografica però tace a riguardo, nessuno prova a rappresentare quello che sta accadendo nel Belpaese. È un fatto piuttosto insolito se si considera che il cinema rispecchia le preoccupazioni dell’intera società, dunque la ragione è probabilmente da ricercare nell’assenza di dettagli da inserire nelle narrazioni per raggiungere un certo grado di credibilità. Bisognava avere un medium in un medium che potesse raccontare il vero. Possiamo azzardare a dire che c’era bisogno di testimoniare quello che accadeva fuori campo rispetto all’immagine cinematografica. In precedenza era stato utilizzato un espediente molto originale: nel film Salvatore Giuliano (1962) di Francesco Rosi un giornalista viene mandato da Milano a Castelvetrano per scrivere un articolo sulla morte del bandito che dà il nome alla pellicola. Vedendo il corpo inerme e facendo alcune interviste nota delle incongruenze nel racconto dei poliziotti. Il giornalista non fa altro che chiamare al telefono la redazione e dire il titolo del suo articolo: di sicuro c’è solo che è morto. I fatti sono realmente accaduti, il giornalista da Milano era Tommaso Besozzi, giornalista e scrittore italiano, noto per l’articolo-inchiesta su Salvatore Giuliano. Quindi Rosi, volendo realizzare un film inchiesta, rimanda lo spettatore a quel titolo di giornale stimolando la sua memoria e facendogli capire come è stata impostata la pellicola. Possiamo parlare in questo caso – come anche nei prossimi – di una sorta di hyperlink media per far sì che la memoria dello spettatore venga risvegliata. Sugli anni di piombo non viene prodotto niente fino al 1977, anno che indica una certa svolta per il cinema italiano. Questo per diversi motivi, primo fra tutti la sentenza n. 202 del 1976 che decreta la liberalizzazione delle emittenti televisive. Il 1977 può essere letto come la fine di un determinato cinema che dà il via a delle rivoluzioni artistiche e i primi a cadere furono i film di genere.

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Una povertà artistica invade il cinema e crea il silenzio sul terrorismo e lo stragismo. Paradossale il fatto che il primo film che affronta il brigatismo è stato l’ultimo baluardo del cinema poliziottesco, Italia: ultimo atto? (1977). In questa pellicola, ormai perduta, non si affronta direttamente il tema del terrorismo ma di Pirri marginalmente, come nel caso del film di Rosi sopracitato, è il giornale a dare allo spettatore il collegamento giusto. A differenza di Salvatore Giuliano, in cui il titolo di giornale citato dal personaggio potrebbe non essere conosciuto da tutti, nell’opera di Pirri i titoli che rimandano allo stragismo sono inseriti in locandina. Un modo di far capire anche allo spettatore più ignaro dei fatti, che qualcosa sta accadendo. Si può parlare di un film di “quasi denuncia”. Citando McLuhan, abbiamo l’unione di due tipi di medium, quello caldo (il giornale) e quello freddo (il film). L’unione dei media filmici e giornalistici è sempre stato presente nella storia, basti pensare che l’espressione Anni di piombo deriva da un omonimo film del 1981 di Margarethe von Trotta. Dopo la morte dell’onorevole Aldo Moro, nel 1978, l’indignazione dell’opinione pubblica porta a una nuova deriva del cinema, quella della consapevolezza. Il primo film che in un certo senso apre le porte a questo “genere” è Il caso Moro (1986) di Giuseppe Ferrara, che denuncia e cerca di sensibilizzare gli spettatori sull’accaduto. La pellicola ripercorre gli eventi, saltando i riferimenti complottisti emersi anni dopo, attraverso un metodo che successivamente è stato utilizzato dalla maggior parte dei registi che volevano risvegliare nello spettatore un certo senso di sdegno. Ferrara divide in due il film, una parte recitata e una composta da immagini di repertorio, per raggiungere due obiettivi: sensibilizzare il pubblico e riportare Moro nell’immaginario comune. Durante i cinquantaquattro giorni di prigionia, i telegiornali non parlavano di altro, ma la vittima dei fatti era invisibile. È risultato quindi affascinante per tutti i registi immaginare come sia stata l’incarcerazione. Chiaramente non doveva essere uno spettacolo di intrattenimento, bisognava cercare di commuovere lo spettatore e sensibilizzarlo a riguardo. Una simile operazione non sarebbe stata possibile se non ci fossero stati i media a bombardare lungo tutti i giorni di prigionia i telespettatori, per questo motivo nel film di Ferrara sono stati usati filmati di repertorio per ricreare quelle determinate emozioni (forse colpevolezza collettiva) negli spettatori. Comunque Il caso Moro è sicuramente un conspiracy film che ha nella sua rappresentazione un secondo aspetto, quello di denuncia -non è un caso che il titolo rimandi a Il Caso Mattei (1972) di Rosi- , verso il pensiero che in Italia tutti i poteri (ideologico, economico e politico) siano controllati in modo invisibile dall’esterno dell’apparato democratico. Questo è stato sicuramente il primo di molti film che, implicitamente (come Romanzo Criminale – la serie) e non (come in Piazza delle Cinque Lune), rimandano ad una cospirazione intorno alla morte di Aldo Moro.

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Nel 2003 viene distribuito Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, ispirato al libro Il prigioniero di Anna Laura Braghetti. La donna è un’ex terrorista italiana, componente della colonna romana delle BR, ed è intestataria dell’appartamento che si ritiene essere stato la prigione di Aldo Moro. Durante il sequestro la Braghetti funge da copertura per altri tre brigatisti, che vivono nell’appartamento per tutti i cinquantaquattro giorni, fingendo di essere la fidanzata di Germano Maccari. Ricordando che la carta stampata secondo McLuhan è un medium caldo, sarebbe meglio soffermarsi su un aspetto del libro, ossia la copertina che le due case editrici differenti (Mondadori, Feltrinelli) hanno scelto di utilizzare. Nella versione del 1998 (Mondadori) c’è la famosa foto di Aldo Moro su uno sfondo rosso, in quella del 2003 (Feltrinelli) c’è l’articolo di giornale del giorno in cui venne recapitata la foto alla stampa. In entrambi i casi per il lettore c’è il rimando a quei giorni specifici, anche se nella versione Mondadori è più lieve, mentre in quella Feltrinelli più esplicita. Ritroviamo di nuovo quindi l’accostamento di due medium, questa volta entrambi caldi.

Carlo Montanari

Se vuoi leggere il resto dell’elaborato puoi cliccare qui: Alla Ricerca Della Mercificazione Del Male_Montanari

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