Antichrist: Trauma e Creazione, Genere ed Immagine

Antichrist, la recensione del film

«L’arte esprime tutto ciò che vi è di migliore nell’uomo: la speranza, la fede, la carità, la bellezza, la preghiera… Ossia ciò che egli sogna, ciò che egli spera… Quando un uomo che non sa nuotare viene gettato in acqua, non è lui, ma il suo corpo che comincia a compiere movimenti istintivi nel tentativo di salvarsi. Anche l’arte è come un corpo umano gettato nell’acqua: è, per così dire, l’istinto dell’umanità di non affogare in senso spirituale. Nell’artista si manifesta l’istinto spirituale dell’umanità e nella sua opera l’aspirazione all’eterno, al trascendente, al divino, sovente a dispetto della natura peccaminosa del poeta stesso. Che cos’è l’arte? È il Bene o il Male? Proviene da Dio o dal Diavolo? Dalla forza dell’uomo o dalla sua debolezza? Forse in essa è racchiuso un’ideale di armonia sociale? Consiste in questo la sua funzione? Essa è una dichiarazione d’amore, un riconoscimento della propria dipendenza dagli altri uomini, una confessione, un atto inconsapevole, ma che rispecchia l’autentico significato della vita: l’Amore e il Sacrificio.»

Queste parole sono di Andrej Tarkovskij, alla cui memoria Lars Von Trier dedica Antichrist (trailer), primo capitolo della (non dichiarata) trilogia della depressione. Amore e Sacrificio appaiono come entità cardinali all’interno dell’opera del danese, che ne reinterpreta i significati convenzionali predicando un verbo che sempre ha scandalizzato, nauseato, esaltato. Quando Tarkovskij afferma che l’arte è come un corpo umano gettato nell’acqua il cui primo istinto è quello di non affogare, l’assunto non si rivela ai nostri occhi come parabola fumosa, metafora inconsistente di un filosofeggiare stantio, ma come realtà profonda. Il legame, infatti, che intercorre tra Von (attributo nobiliare sintomo di “un’enorme autovalutazione”) Trier e la creazione artistica ha sempre avuto il suo centro d’irradiazione collocato comodamente tra la depressione, i disturbi d’ansia e la fobia. Fondamentale allora interrogarsi sulla causa di questa tensione: da cosa prende avvio l’istinto creativo? Quale motore genera creazione? La domanda sembrerebbe assumere maggiore senso se posta però sul piano teleologico dello scopo, della funzione pratica in vista di un disegno completo, totalitario, risolutivo: perché creare?

Sul concetto di trauma e creazione

È chiaro, l’esigenza nasce da un trauma, che verrebbe (quantomeno in prospettiva teorica) curato, alleviato dal fare poetico. Eppure, per quanto istantanea e comunque assolutamente accettabile, la risposta rischierebbe di atrofizzare la questione nei regimi della semplificazione, dell’immediato. Non si crea essenzialmente per stare meglio, per una panacea in ogni caso temporanea. Come sottolinea Tarkovskij, al di là dell’espressione, arte è salvezza nei termini dello spirito e anelito verso una realtà ulteriore, più alta. Se questa realtà effettivamente esiste non è dato saperlo, ma già concependo il proprio io creatore come tendente ad un’altra realtà, questa la si deve accettare non in quanto direttamente esistente, ma almeno sottoforma d’idea che la legittimi.

Nel retroterra culturale di Lars Von Trier un ruolo fondamentale lo riveste certamente Nietzsche (che scriverà, tra gli altri, un saggio sulla “maledizione del cristianesimo” intitolato proprio L’Anticristo, d’ispirazione per Trier), il cui apporto nei riguardi dell’arte si rende simil precursore del pensiero tarkovsijano. Innanzitutto, interrogandosi ontologicamente sull’arte, il regista russo si chiede quali forze la governino, presupponendo che in ballo ci sia un gioco di opposti, di principi contrari. Ritornando dunque a Nietzsche, si ricordi come anch’egli in La Nascita della Tragedia ammetta in primis un’opposizione che regola lo spirito e l’arte greca, ovvero quella tra apollineo e dionisiaco: il primo (principio d’equilibrio e di armonia) incontra il secondo (principio estatico e di forza vitale) fondendosi tra loro nella sublimità tragica di Sofocle ed Eschilo.

E poiché, per Nietzsche, la tragedia (attica, sintesi di apollineo e dionisiaco) è forma apicale dell’arte, ne deriva che l’arte stessa è e deve essere regolata da questi due spiriti opposti: l’unico modo per comprendere il mondo, inteso come gioco estetico e tragico, è attraverso l’arte. In questo senso Nietzsche dà all’esistenza una «giustificazione estetica», per la quale appare impossibile vivere se non in funzione del fare artistico: la possibilità, come scrive Tarkovskij, di penetrare la stessa realtà aspirando all’eterno. Questo anche in virtù del fatto che per il filosofo la vita è dolore, lotta, distruzione, crudeltà (termini frequentemente ricorrenti in Antichrist) e l’unico modo per fare i conti con realtà e natura è la piena accettazione delle stesse, in cui l’operazione artistica funge da scongiuro essenziale di fuga e smarrimento. Dove e come si colloca, allora, Von Trier in tutto questo? Soprattutto, un’opera come Antichrist, come può rivelare la sua posizione eminente nella filmografia del danese alla luce dei discorsi intorno a trauma e arte? 

Nell’autunno del 2006 Trier aveva in mano un primo embrione di sceneggiatura redatto dallo sceneggiatore Anders Thomas Jensen, a partire da una serie di idee e spunti proposti dall’autore sin dal 2004. Trier stava, tuttavia, gradualmente entrando in un moloch fagocitante di depressione ed ansia (ugualmente alla protagonista del film, interpretata da Charlotte Gainsbourg), a tal punto da indurlo ad un auto ricovero nel reparto psichiatrico del Rigshospitalet. Il ricovero si rivelerà immediatamente fallimentare: gli verrà comunicato che dovrà 1) attendere una settimana per poter parlare con uno psichiatra; 2) sospendere ansiolitici ed antidepressivi; 3) partecipare a sedute di terapia di gruppo. Durerà un giorno. L’indomani uscirà e inizierà a farsi seguire da uno psicologo cognitivo (ancora, come la stessa protagonista farà col marito terapeuta, interpretato da Willem Dafoe).

Afferma il regista: «Sono stato sottoposto per alcuni anni a questa cosa chiamata terapia cognitiva, e la terapia che lui [Dafoe] sta facendo nel film – in un modo molto brutto – è una terapia cognitiva. La cosa molto moderna di queste persone è che per loro Freud è morto e non ha più alcun significato, cosa che non so. Conosco qualcosa di Freud ma non saprei dire se sia morto o no. Tutta questa terapia cognitiva è una faccenda molto sarcastica dal mio punto di vista. Ne ho fatte tante e ad un certo punto quando scopri la logica di questo trattamento rimani deluso».

Antichrist, approfondimento del film di Lars Von Trier

La versione preliminare della sceneggiatura di Antichrist presentava come soggetto principale un paziente uomo in cura da una terapista donna, situazione che viene poi ribaltata con una nuova bozza nel 2008 e successivamente con la versione definitiva. Nel creare, Trier fa emergere sia quella forma terapica di espiazione tipica dell’atto creativo, sia quella possibilità nietzschiana di comprendere l’esistente cui si fa cenno sopra. Da una parte dichiara: «Non ero molto consapevole di quello che stavo facendo quando ho scritto la sceneggiatura, ma scrivere sceneggiature è sempre stato divertente per me. E una delle cose che devi fare quando sei depresso è trovare qualcosa che possa farti rilassare e rilassare, provare la più piccola gioia della vita.».

Dall’altra invece: «Il film si basa sul fatto che ho osservato le piante e tutto il resto, gli esseri viventi e quanto soffrono… e che è davvero una brutta idea, la vita. Soprattutto la vita umana, perché una cosa è essere un animale, essere torturato e fatto soffrire per tutta la vita e poi alla fine morire, ma essere un uomo è molto peggio, perché prima di tutto l’uomo sa che morirà. Ma anche perché è consapevole del fatto che non è mortalmente giusto uccidere altri esseri (o comunque che ci possono essere dei problemi emotivi) e che per ogni passo che facciamo uccidiamo molti animali, o piante, o altro, e che per ogni respiro che facciamo uccidiamo. Quindi il fatto è che… essere umani è davvero un brutto scherzo. […] Se fosse un film – la vita – un film molto ben scritto, sarebbe sostanzialmente un film horror.». In questi termini risuona il verbo del caos e della fine all’interno dell’opera per bocca di Lei: «Il pianto delle cose che sono destinate a morire», «La natura è la chiesa di Satana», espressioni antiche, oscure, di plumbea dogmaticità.

Nel rapporto di Trier con l’arte si delinea una sintesi assoluta tra osservazione empirica ed assorbimento, tra la sua formazione nello spirito mediante trauma (fortemente condizionata dalla patologia, quindi dal pessimismo) e la necessità di purificarsi attraverso la comprensione del reale, che nel suo caso si traduce in produzione di immagini. Nell’arte del danese, dare un volto al male, una sua realtà estetica, processata secondo personali schemi e meccanismi, è l’unico modo per accettarlo e poterci convivere senza soccombere. Elaborare il trauma è un passaggio ulteriore nella vita degli esseri umani, perché il primo trauma è anzitutto quello di essere, di esistere in una realtà che Trier identifica ontologicamente come maligna, macchiata di un peccato originale.

Antichrist è probabilmente l’opera del regista più funzionale al discorso circa trauma e creazione (non solo perché effettivamente delinea una realtà corrotta e corruttrice, con l’evidente “ri-significazione” della parabola di Adamo ed Eva in un’ottica tragica), ma anche perché a detta del regista: «Of all my films, Antichrist comes closest to a scream». Di fatto, tra le ispirazioni iconiche del film primeggia l’espressionismo munchiano de L’urlo e l’inquietante simbolismo del Giardino delle delizie di Bosch, che creano una dialettica immaginifica comunicante sempre altro da sé, al di là del riferimento, e restituendo questa volta visivamente dolore e dannazione come presenze estetiche tangibili.

Sul concetto di genere ed immagine

«Se la vita fosse un film, sarebbe un film horror» ed effettivamente Antichrist è il film di Trier più direttamente ascrivibile alla categoria di “cinema di genere”, forse insieme solo a Dancer in the dark e all’ultimo La casa di Jack. La scelta non è confinabile unicamente alla sua visione orrorifica e crudele della vita, ma ad una precisa e personale considerazione delle strutture del genere e delle sue convenzioni, dalle quali partire per poi decostruirle e rinnovarle. Come ricorda Enrico Maria Scavone nel suo Lars Von Trier, L’estremo esteta: «Per von Trier si tratta di prendere ciò che è disponibile e renderlo molto personale. […] Lavorare con il genere significa dunque decostruirlo ed innovarlo, non completamente, ma in parte soltanto: fornirvi la propria personale variazione come una fra le molte varianti di un mito. Nei suoi film post-malattia è possibile notare come il regista si sia dilettato a snocciolare un genere trito e ritrito e trasgredire i confini del gusto attraverso una discordante commistione tra genere basso e film d’autore [qui riprendendo le parole di Linda Badley in Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations].»

Per Jenle Hallund, sodale di Trier, il regista prende «un’idea di genere e poi trova il personaggio su cui vuole fare un film, restando assolutamente fedele al personaggio e non al genere». La sua è un’operazione di ricomposizione dei modelli precostituiti, una sorta di violazione, un’anarchia interpretativa che si allontana dal concetto di genere come schema fisso e lo rende un oggetto perversamente malleabile. Infatti, riprendendo le parole di Calasso in Allucinazioni Americane: «Le Convenzioni, i Generi di cui si favoleggiava a scuola che fossero stati liquidati da Benedetto Croce sono invece come gli dèi: scompaiono, a tratti, ma per migrare e riapparire, camuffati e ringiovaniti, in altre terre.».

Il genere in Antichrist appare chiaramente come un’eccezionale deviazione dal canone, che rielabora l’horror attraverso riviviscenze interpretative di storie bibliche, fantasmi tragici, ossessioni pittoriche, tradizioni cinematografiche e filosofie estreme. Nel volume di Linda Badley Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, Trier dichiara che il cinema giapponese dell’orrore è stato di fondamentale ispirazione per le atmosfere paradossali, decostruttive, illogiche del suo film. Per lui si tratta di «film diretti alla rivelazione perché non hanno una storia fissa. Possono accadere un sacco di cose assurde e non ti importa, perché rientrano nel quadro di questo film di genere. Finché fa paura non ci interessa. È una forma di film molto più libera, credo, in qualche modo.».

Antichrist, approfondimento del film di Lars Von Trier

E questa forma di libertà nel film di Trier non è semplicemente vivida, ma finisce per acquisire i toni dell’ossessività, del parossismo, del saccheggio barbarico della convenzione. Nell’economia del film, infatti, ci si trova costantemente di fronte al paradosso non soltanto perché, in termini strutturali, Antichrist assume in sé i codici della tragedia greca, della Genesi e dell’horror giapponese, tematicamente e narrativamente; ma anche perché, nella sua realtà diegetica, assistiamo ad opposizioni che oscillano tra il realismo della malattia e della relazione e il simbolismo inquieto; tra apparizioni mistiche, fiabesche e immagini laceranti di eiaculazioni ematiche e atroci infibulazioni; tra parabole bibliche, con le relative espressioni di amore, salvezza e sacrificio, e devianze stregonesche, folkloristiche; tra quadri di bellezza rasserenante ed immagini di nerissima disillusione («chaos reigns»). Una tensione costante tra apollineo e dionisiaco, che è poi, come sottolineato in precedenza, fondamento essenziale dell’arte e della vita.

Sugli elementi simbolico-allegorici dei suoi film, Trier dichiara: «È una sorta di trucco da quattro soldi per far sembrare le cose un po’ più monumentali […], è come una cornice dorata intorno ad un’immagine che la distingue dalla parete su cui è appesa e rifinisce il quadro e diventa più chiara». Il genere è allegoria, apologo, mitologia, in definitiva è sempre la possibilità di andare oltre l’immagine data, oltre l’espressione in sé. Il genere permette all’espressione di estendersi, di uscire fuori di sé, caricandola di significati molteplici, ulteriori, non per forza comprensibili. È quell’oltre-possibilità che un’immagine ha per comunicare col soggetto cui è destinata: possibilità di dire e di dirsi. E questa, nel cinema di Trier, è un’ostinata, metalinguistica, crudele, spassosa ricorrenza: «Tutto quello che posso dire è che sono stato guidato dalla passione. Prendere un genere e stravolgerlo e lasciare che si contraddica, questo è il mio piccolo marchio di fabbrica. Non direi che ho cambiato qualcosa, ma ho cercato di creare un genere che è una miscela di naturalismo e surrealismo, si potrebbe dire.».

Tutta l’opera di Lars Von Trier tende, attraverso storie di visioni oblique, distorte, traumatizzate, allo svelamento di una verità indicibile, che si nasconde sotto il velo di una natura leopardianamente indifferente, se non addirittura sadica come testimonia Antichrist. E il mezzo attraverso cui avviene questo svelamento è l’immagine-simbolo, il simulacro di significati plasmati dalle esperienze del soggetto agente Trier, che sembrano estendere il loro pensamento ad un assoluto caotico e decadente: «È l’invito a cogliere il non detto, il non rappresentato, più che l’imprevisto», come sottolinea Roberto Lasagna nel suo Lars Von Trier. La poetica di Trier ha assorbito nel corso degli anni una valenza ben più complessa e sofisticata del semplice pessimismo arthouse europeo o dello scandalo da festival (categorie per annoiati o detrattori). Il (ri)pensamento delle forme a partire dal Dogma 95 ha scatenato una molteplicità di riflessioni circa lo statuto dell’immagine e la sua portata simbolica, il suo valore significante. Ma soprattutto, nel cinema del regista, proprio sul concetto di allegoria e simbolo di cui sopra, si assiste continuamente a sequenze visive inesauribili, che sono cioè destinate (sarebbe meglio “costrette”) ad un fluire di significati che non può interrompersi.

Antichrist, la recensione del film

Se la parola esiste come veicolo tra un significante e un significato e dispone di uno schema relativamente fisso di sue accezioni, lo stesso non può dirsi dell’immagine. L’immagine non può trovare una destinazione esaustiva, non può tradursi fissamente e universalmente, non si consuma; c’è sempre altro, c’è sempre un oltre. Produrre immagini nascerebbe allora dall’impossibilità essenziale della parola di andare oltre sé stessa e i limiti delle sue declinazioni, e questo nell’opera di Trier si è reso statuto fondamentale nel corso degli anni. Andrea Nicolini, nell’introduzione a Lascia ch’io pianga. Il masochismo tra cinema, filosofia e psicoanalisi, ritorna a Pasolini e al suo Cinema di poesia: «Il potenziale dell’immagine consiste proprio nel suo inesauribile valore significante. Diversamente dalle parole che sono raccolte in un dizionario più o meno mobile, le immagini non si lasciano esaurire da qualsivoglia significato. Esse sono veicolo di significanti inesauribili.». Ne deriva perciò una straordinaria ed infinita possibilità di cui dispone il regista, rispetto ad uno scrittore o ad un teorico limitati dai dizionari, dagli elenchi, dai significati stessi.

Se lo scrittore si serve della parola e il regista dell’immagine, se la parola è finita e l’immagine è di per sé inesauribile, si arriverà alla conclusione che la differenza strutturale che vige tra scrittore e regista è l’indefessa, selvaggia, anarchica libertà che domina il regno del visibile. Antichrist, in questo senso, è l’opera più strettamente aderente al concetto dell’oltre-significato proprio delle immagini: la volpe che si divora professando pessimismo cosmico, la cerva che fugge legata ad un feto abortito, il pullo divorato dalle formiche, la collina vivificata da anonimi femminili, l’orgasmo consumato alle radici dell’albero animato da mani serpentine…

Per concludere, si è dimostrato come il cinema per Trier possa ramificarsi in un multiplo costante di identità: la terapia, l’anelito verso l’eterno, un’occasione per tentare di comprendere la realtà oggettuale. Ma è anche, certamente, l’incontro-paradosso che abortisce le forme rigenerandole: forme che vivificano il cinema stesso e che l’autore disseziona, scompone, estremizza per svelarne la vera essenza. L’assidua indicibilità dell’immagine che tuttavia necessitiamo di dire, di significare, senza raggiungere un’universalità conciliatrice, risolutiva, approdando anzi al turbine caotico dei significati. E forse per Lars Von Trier, il cinema, come la vita, si riduce a questo: un’impossibilità di soluzione, un eterno ritorno al caos.

BIBLIOGRAFIA

Enrico Maria Scavone, Lars Von Trier, l’estremo esteta, Bibliotheka Edizioni

Roberto Lasagna, Lars von Trier, Gremese Editore

Linda Badley, Lars Von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, Wallflower Pr

Linda Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), Univ of Illinois Pr

(A cura di) Rex Butler e David Denny, Lars von Trier’s Women, Bloomsbury

(A cura di) Andrea Nicolini, Lascia ch’io pianga. Il masochismo tra cinema, filosofia e psicoanalisi, Orthotes

Andrej Tarkovskij, Scolpire il tempo. Riflessioni sul cinema, Istituto internazionale Tarkovskij

Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, Editori Laterza

Roberto Calasso, Allucinazioni americane, Adelphi

SITOGRAFIA

Antichrist was Lars’ ‘fun’ way of treating depression, Irish Indipendent

Lars von Trier: The Burden From Donald Duck, https://www.youtube.com/watch?v=pXWcl6OuVw8

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