Agnès Varda, quando il cinema è casa

agnes varda

Caschetto rosso, personalità poliedrica, sguardo capace di catturare ogni dettaglio. Un po’ regista, un po’ fotografa, un po’ sceneggiatrice, Agnès Varda è quello che potremmo definire un’artista a tutto tondo. Da Picasso ha preso la volontà di reinventarsi continuamente, da Prèvert e Racine l’amore per la poesia (Agnès Varda on poetry) e l’influenza dei surrealisti l’ha spinta a fare del “caso” e della libera associazione di idee due componenti essenziali del suo stile. «Ho l’impressione di abitare il cinema, il cinema è la mia casa», ha spesso affermato la regista, evidenziando come la sua vita ha continuamente plasmato la sua arte e viceversa. Unica donna cineasta appartenente alla Nouvelle Vauge, è stata anche un’importante esponente del Rive Gauche (insieme a suo marito Jacques Demy), un movimento cinematografico impegnato nel cinema documentario, nella sperimentazione estetica e con un occhio di riguardo alla politica di sinistra.

Nata ad Ixelles il 30 maggio 1928, Arlette Varda a 18 anni decide di attuare quelle che saranno le prime tra le tante rivoluzioni che coloreranno la sua vita: cambia il suo nome in Agnès e sceglie di adottare la pettinatura a caschetto che diventerà un tratto distintivo della sua immagine. Trascorre gran parte della sua infanzia a Sète, dove ambienta il suo primo lungometraggio, Le pointe courte (1955). Lo gira a soli 25 anni, senza alcuna formazione, con l’intento di rievocare tratti del Neorealismo italiano, anticipando così anche alcune tendenze stilistiche che saranno riprese pochi anni dopo dalla Nouvelle Vague.

Elogiato da Bazin per la sua semplicità documentaria e stilizzazione moderna, il film mette in risalto l’importanza del “luogo”, che diventa uno dei protagonisti della storia. Come lei stessa ha affermato: «Il luogo ha dato origine al film, avevo la sensazione che ci fosse qualcosa da scoprire a Sète» [1] . Le Pointe Courte mette in luce alcune delle soluzioni stilistiche che saranno maggiormente utilizzate dalla regista: il ricorrere ad una macchina da presa mobile, fluida ma elegantemente irrequieta, l’uso delle ombre, la lunga durata delle inquadrature e la profondità di campo evocativa. [2]

Come ne Le Pointe Courte, anche in Cleo dalle 5 alle 7 (1962) troviamo un’efficace rappresentazione della femminilità. Il film è un esempio del cinema d’arte europeo così come lo definiva Bordwell, con il suo aggiornamento dei codici del realismo, con i jump cuts, i campi lunghi ed il finale ambiguo. Georges Charensol lo ha definito come «un vero film moderno, novanta minuti nella vita di una donna parigina possono contenere l’angoscia e le preoccupazioni di una intera nazione» [3], evidenziando come un’importante protagonista del film sia la Francia degli anni ’60. Cleo dalle 5 alle 7, liberamente ispirato ai quadri di Baldung Grien, è un film che sviscera il tema della morte, che con delicatezza ci fa entrare nella vita di una donna scossa dalla paura di morire.

La morte e più in generale la ciclicità della natura, tematiche care alla Varda, possiamo ritrovarle ne Il verde prato dell’amore (1965). Vicino alla Nouvelle Vague, il film ricalca lo stile godardiano strizzando l’occhio al divismo cinematografico. Con la sua dimensione fiabesca e il suo montaggio impressionistico, la storia ci regala una brutale metafora tra il fiore che appassisce e l’essere umano che muore e viene sostituito. I fiori sono da sempre un tratto distintivo del cinema della Varda, rappresentano una specie di fil rouge che unisce le sue varie opere. Possiamo ritrovarli anche in Lions Love (1969), il più “americano” tra i film della regista, ispirato al cinema sperimentale di Andy Warhol. Qui la Varda è riuscita a creare un sottilissimo confine tra realtà e rappresentazione, svelando spesso la presenza dell’apparato tecnico ed intessendo con lo spettatore un dialogo metacinematografico.

Di tutt’altro sapore ci appare Senza tetto né legge (1985), un film in cui percepiamo poco la presenza della regista. La narrazione, infatti, sembra essere votata ad un maggiore realismo. L’opera, che probabilmente possiamo considerare una tra le più famose della Varda, procede per flashback delineandosi dentro una struttura anticonvenzionale. Il tema del vagabondaggio è reso in maniera così efficace da lasciarci con una domanda: ”si può vivere ai margini della società?”. Il finale brutale sembra offrirci una risposta, ma il cinema della Varda ci insegna che è necessario continuare ad interrogarsi continuamente. «Seguendo Mona (la protagonista), il film suggerisce l’intolleranza di tutti nei confronti di coloro che non sono nella norma» [4]  e la Varda ci ha sempre dimostrato di essere interessata proprio a chi evade le regole, chi vive ai margini (come ha affermato nell’intervista di TEDx Talks).

Ha scelto di fare documentari proprio per questo, per entrare in empatia con le persone e tirare fuori il meglio da loro. Quando ha realizzato il documentario per suo marito (Garage Demy, 1991) voleva essere vicina a lui e restituire allo spettatore quella che era la sua essenza. Ciò traspare chiaramente nell’uso che ha fatto della camera, la quale riesce a raccogliere la texture dei capelli, della pelle di Demy, insieme ad altri suoi particolari. Varda, in un certo senso, è riuscita a strappare dalla morte l’uomo che ha amato, mantenendo vivi i ricordi che aveva di lui. Un grande risalto ai dettagli lo dà in La vita è un raccolto (2000), una cronaca umanistica e autoriflessiva in cui si lascia andare anche a discorsi sulla vecchiaia, grazie ai quali possiamo intravedere le sue fragilità. Varda lascia scorrere la macchina da presa sulla sua pelle invecchiata, sottolineando quanto si senta un animale che non riconosce più.

Les plages d’Agnès (2008) si apre con questa frase: «se aprissimo le persone troveremmo paesaggi, se aprissimo me troveremmo spiagge». Varda in questo documentario si racconta, esordisce ricalcando l’importanza che i luoghi hanno avuto nella sua vita, ci fa immergere in quei posti che conservano una parte di quello che è stata. La produzione di questa sua insolita biografia l’ha portata a ragionare sugli anni che si è lasciata alle spalle, giungendo alla conclusione che il suo lavoro era la sua vita e viceversa, non ha mai smesso di lavorare proprio come non ha mai smesso di respirare. Con ironia ricorda di come prima dei 25 anni abbia visto solo 10 film e, nonostante questo, si sia approcciata al cinema perché la fotografia non le bastava più, le servivano parole, non solo immagini.

Agnès Varda è stata un’artista necessaria, ha aperto le porte del cinema a tante donne che, come lei, erano stufe di vivere nell’ombra. Ci ha lasciato delle opere che tutt’oggi sono apprezzate in tutto il mondo, proprio per la verità di cui sono impregnate. Il suo cinema ci racconterà per sempre di lei, delle persone che ha amato e dei luoghi tanto misteriosi che ha sempre portato nel cuore.


BIBLIOGRAFIA:

  • Kelley Conway, Agnes Varda, Univ of Illinois Pr
  • Michel Marie, La Nouvelle Vague, Lindau

[1] Ledoux, Jacques, Transcription interview with Agnès Varda. Cinémathèque Royale de Belgique, Ciné-Tamaris Archive

[2] Neupert, Richard, “A History of the French New Wave Cinema”, University of Wisconsin Press (2007)

[3] Charensol, Georges, “Le Coeur Révélateur”, Lettres francaises 922 (Aprile 1962)

[4] Alion, Yves, “Entretien avec Agnès Varda”, L’Avant-scène Cinéma 526 (Novembre 2003)

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