A qualcuno piace caldo: la dodicesima notte di Wilder

A qualcuno piace caldo approfondimento film di Billy Wilder DassCinemag

Se c’è un regista che più di ogni altro ha saputo, con umorismo tagliente e senza timori, piantare forse l’ultimo chiodo nella bara del codice Hays, è stato Billy Wilder, con A qualcuno piace caldo. Uscito per la prima volta il 19 marzo del 1959 negli Stati Uniti, questa commedia a tinte thriller ha saputo ribaltare i tabù di produzione dell’epoca (di cui ancora non siamo riusciti veramente a spogliarci) con un’arguzia ed un talento irripetibili. La forza più grande e propellente dietro a questa (riconosciuta) opera d’arte risiede senza ombra di dubbio nel suo intento sinceramente giocoso, nel puro divertimento che trapela da ogni movimentata sequenza; e che tuttavia non deve trarci in inganno: fra una risata e l’altra risiede, a volte senza che sia facile accorgersene a prima vista, una stratificazione complessa e intricata di significati.

Le premesse sono, già di per sé, ridanciane: due musicisti scapestrati si travestono da donne per poter lavorare in un’orchestra femminile. Eppure le motivazioni sono cruente: a rincorrerli è una banda mafiosa che non li vuole come testimoni, e nelle sparatorie torna a galla l’eredità drammatica e potente di Wilder, memore di capolavori quali Sunset Boulevard e Double Indemnity.

A qualcuno piace caldo si gioca interamente su una carta vincente, appunto quella del travestimento. Indossare una maschera, schermarsi dal mondo esterno, perdersi per un po’ nelle vesti di qualcun altro, è un piacere delizioso ed esilarante che tutti abbiamo imparato a provare, ad assaporare nel gusto tutto particolare del prendere in giro chi credeva di (ri)conoscerci fino a poco prima. Certo è che l’equivoco, il qui pro quo – che sia più o meno intenzionale – ha delle radici tanto antiche quanto mordaci: dallo Pseudolus di Plauto, e passando per Twelfth night, or What You Will di Shakespeare, arrivare a A qualcuno piace caldo, attraversando peraltro buona parte della filmografia di Wilder [1], è tutta una frenesia di metamorfosi, inganni e giochi di furbizia spregiudicata.

In questo senso, l’opera forse più generalmente apprezzata nell’estesa lista dei suoi lavori è profondamente shakesperiana, intrecciando con Twelfth night un legame quasi immediato; innanzitutto per le urgenze di trama, che prima muovono e poi sono mosse dalle complicazioni di una ‘maschera di genere’. Tuttavia, se nel teatro del bardo inglese sono le donne, generalmente, a scalare – per così dire – la piramide sociale travestendosi da uomini, e quindi trovandosi finalmente ad essere riconosciute come loro pari, qui sono due maschi in tutto e per tutto a calarsi nei panni delle oppresse, e a doverne comprendere il linguaggio. La performatività di genere si mostra nelle sue contraddittorietà nel Seicento come negli anni Cinquanta, tradendosi nella facilità e rapidità con cui i personaggi shakespeariani, così come i due musicisti a noi più prossimi, si svestono, travestono e rivestono per cambiare ogni volta identità a seconda delle esigenze [2] – che sia congiungersi finalmente con la persona amata, o sfuggire ai più pericolosi gangster di Chicago.

C’è però (non diremo ovviamente, ma sarebbe bello pensarlo) uno scarto che Wilder opera rispetto a Twelfth night. Laddove Shakespeare era costretto, e forse convinto, dalle contingenze del suo tempo, Wilder – quasi per dispetto – si contorce con violenza per districarsene. Nell’atto conclusivo di Twelfth night i travestimenti cadono tutti; le donne si rivelano come tali, allo stesso modo degli inganni e gli scherzi tirati ai personaggi più ingenui, così che finalmente si possa realizzare il finale per eccellenza della commedia, e cioè il matrimonio – indiscutibilmente eterosessuale; riconfermando la transitorietà assoluta della maschera, la sua natura appunto di travestimento inteso come un sostrato superiore a coprire l’identità e la verità dell’individuo. Laddove invece il (perché di questo, seppure un po’ anacronisticamente e in senso lato, si parla) drag in cui si calano Joe-Josephine (Tony Curtis) e Jerry-Daphne (un Jack Lemmon sensazionale) nasce, a livello di trama, da una necessità disperata e impellente; e si trasforma, piano piano, in altro.

Il travestimento diviene veicolo di decostruzione e immedesimazione nel corpo e nella realtà dell’altro – questo fantomatico genere femminile, così distante eppure sempre prepotentemente così vicino. Basti pensare all’entrata di Sugar (Marilyn Monroe) in scena: una telecamera asservita senza ribellioni al male gaze ne segue le gambe, il movimento dei fianchi, senza lasciarle diritto di parola e aprendo uno spazio solo ai commenti dei due protagonisti; eppure Jerry-Daphne si lascia sfuggire degli apprezzamenti che, almeno per il momento, non sono quelli tipici dell’uomo con occhio di avvoltoio: bensì osserva la nuova arrivata per imparare da lei, ne nota il movimento sicuro delle gambe sui tacchi, l’ancheggiare che la rende una donna agli occhi di chi le è intorno: tutti dettagli che a Jerry servono affinché il suo travestimento funzioni fino in fondo. Di fronte alla femminilità con la F maiuscola di Monroe, i travestimenti – in realtà quasi perfetti: merito di un reparto trucco di tutto rispetto – dei due protagonisti acquistano una teatralità tutta nuova, si rendono comici all’inverosimile nella loro esplicita artificiosità, fanno vanto della loro natura di maschere e insieme iniziano a radicarsi nelle identità dei due personaggi.

È significativo che sia proprio Jerry a ribaltare queste aspettative, e non Joe, che invece cercherà ben presto di liberarsi del suo costume femminile per trovarne un altro – sempre fittizio, ma comunque maschile – di modo da sedurre Sugar. Jerry si calerà completamente nel piacere della maschera, sostanzialmente dimenticando di essere un uomo (e quindi, per il momento storico in cui si trova, di non poter assolutamente sposarne un altro) e accettando quindi di buon grado la proposta di matrimonio dell’impossibile a deterrersi milionario Osgood (Joe E. Brown). Proposta, questa, che gli si rivolterà contro, impelagandolo nelle trame della sua stessa menzogna, quando persino di fronte alla rivelazione della vera identità di Jerry Osgood non si lascerà intimorire e pronuncerà la celeberrima frase conclusiva del film – «Nessuno è perfetto».

L’intenzione originaria di Jerry attraversa il confine della sua impellenza e sfuma il limite della sua identità, ponendo allo spettatore una questione che, per gli anni in cui il film ha raggiunto il suo successo – non che ora abbia perso la sua potenza – era esplosiva: e cioè quali siano veramente i confini (apparentemente invalicabili) fra uomo e donna, quali siano questi misteriosi atti e pensieri che ci rendono, così pensiamo, tanto diversi le une dagli altri [3]. La risposta la trovano Jerry e Joe mettendosi nei tacchi dell’altra; riconosciuti come donne da tutti gli uomini che li circondano, subiscono molestie, attenzioni indesiderate e commenti spiacevoli che fanno parte della quotidianità di metà del pianeta. È proprio attraverso questa impavida denuncia che passa il dirompente messaggio di Wilder, e la redenzione, in particolare, di Joe. Questi, nonostante il suo passato un po’ libertino e un po’ approfittatore delle povere, malcapitate fidanzate del momento, decide infine di rivelare la sua identità di squattrinato a Sugar. Ormai ben conscio della meschinità che sovente caratterizza il suo genere, si attende da lei un rifiuto; ma, ovviamente, è proprio per la sua sincerità che lei lo accetta e sceglie di amarlo nonostante, o forse, proprio perché.

Funzionali innanzitutto alla trama, i travestimenti diventano quindi veramente una pura fonte di divertimento, sia per i personaggi che per chi li guarda; fra un equivoco e l’altro, un reggiseno che si slaccia e un tacco che fa perdere l’equilibrio si accende la scintilla del gioco, spinta propellente verso la liberazione dalle catene di genere (cinematografico o antropologico che sia), verso la sfida alle costrizioni occludenti della narrazione cinematografica e alle aspettative che pesavano (e pesano) sulla mascolinità [4]. Se Shakespeare aveva dato al suo gioioso teatrare una conclusione che sollevasse lo spettatore del suo tempo da faticosi dubbi e questionamenti morali – i personaggi si riconoscono, e chi si era travestito può tornare alla sua identità originaria, riconfermando la cis – ed eteronormatività del canone sociale – Wilder non ci dà pace: per quanto ne sappiamo, Jerry finirà effettivamente con lo sposare Osgood, e chissà che non siano delle nozze felici. Sicuramente, porgiamo alla bizzarra coppia i nostri più calorosi auguri per un matrimonio pieno d’amore.

Note

[1] Gerd Gemünden, All Dressed Up and Running Wild: Some Like It Hot (1959), in A Foreign Affair. Billy Wilder’s American Films, Berghahn Books, New York, 2008, pp. 100-124

[2] Catherine Belsey, Gender in a Different Dispensation: The Case of Shakespeare, inDiGeSt. Journal of Diversity and Gender Studies”, Vol. 1, no. 1, Leuven University Press, Leuven, 2014, p. 4

[3] Gerd Gemünden, All Dressed Up and Running Wild: Some Like It Hot (1959), op. cit, pp. 100-124

[4] Maurizio Grande, Billy Wilder, Moizzi editore, Milano, 1978, p. 47

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