#FrancoFilmFestival14: Nome, la recensione del film di Sana na N’Hada

«Che ci vuoi fare, ormai tutto è già stato scritto». Al giorno d’oggi capita fin troppo spesso di ripetere o sentir dire questa frase. Quasi fosse un mantra capace di scacciare spiriti malevoli. Non appena lo spettatore smaliziato acquista la conoscenza di alcuni stilemi narrativi, non è raro che si lasci andare a commenti cinici e sprezzanti di tale portata. Magari indirizzati agli sceneggiatori odierni, che dovrebbero sapere come scrivere una storia. Saltuariamente, però, può capitare di ricevere una bella sberla. Un colpo in pieno viso, capace di svegliarti dal torpore e convincerti a prestare attenzione. «Perché» ti sussurra all’orecchio «alla fine ne varrà la pena».

Nome (trailer), diretto da Sana na N’Hada, possiede il primato di essere il primo film della Guinea-Bissau mai presentato al FrancoFilm Festival. Si tratta di un film dalla storia produttiva curiosa e travagliata. Una storia che pare provenire da un mondo del tutto sconosciuto da quello che viviamo. Una piccola storia che sembra vivere fuori dalle normali regole e che appare, allo spettatore odierno, come qualcosa di incredibilmente inusuale e anacronistico. Può, infatti, vantare un fascino che, in parte è dovuto alla sua provenienza esotica (almeno per noi europei), alla dura e travagliata storia del piccolo stato africano, e soprattutto dal suo non preoccuparsi di piacere forzatamente al pubblico che lo guarderà. Si tratta insomma di un film che non cerca l’applauso facile. Che ti apre le proprie porte cercando di mostrarti qualcosa che crede ti possa comunque interessare.

La storia, ambientata a cavallo tra gli anni ‘60 e ’70, ruota attorno alla vita di un uomo soprannominato per l’appunto Nome (Marcelino António Ingira). Lo incontreremo già dalle prime scene, ancora bambino, intento ad aiutare nei riti funebri per suo padre. Dopo questo evento ci verrà mostrato il piccolo Nome crescere, imparare a procacciarsi il cibo per il suo villaggio, data la penuria di uomini causata dall’occupazione portoghese. In seguito il ragazzo si innamorerà della bella Nambu (Binete Undonque), scoprendo quindi i piaceri della vita adulta. La sua esistenza però cambierà quando prenderà una seria decisione: abbandonare il proprio villaggio per cercare di aiutare il partito rivoluzionario Guineano, contrapponendosi ai conquistatori portoghesi. Inutile dire che l’intera vicenda, che copre un arco di diversi anni, vedrà Nome partire pieno di ideali e di buone intenzioni salvo poi essere messo alla prova dalla durezza del mondo reale e dalla crudezza della guerra. Per infine uscire da quell’inferno per sempre mutato.

Almeno sulla carta sembra una storia semplice. Per certi versi si potrebbe definire una sorta di vicenda alla Kirikou (per chi si ricordasse il meraviglioso film d’animazione di Michel Ocelot) che al posto di salvare il proprio villaggio dalla malvagia strega Karabà, diventa uomo nello stesso momento in cui il mondo esterno mostra il suo vero aspetto. Tutto il resto del film, aldilà di questo nucleo centrale, è composto da piccole storie riguardanti tutti i vari personaggi secondari. Per quanto diverse di esse siano comunque interessanti o di forte impatto visivo, non interferiscono mai eccessivamente nella storia principale.

L’intero film di Sana na N’Hada è percorso da un filo conduttore che pervade tutti i suoi componenti. Una continua voglia di giocare con lo spettatore senza mettersi in discussione, una voglia di sperimentare con il linguaggio audiovisivo e soprattutto mostrare, quasi ci trovassimo di fronte ad un film appartenente agli anni ’10 del novecento. Forse è proprio questa la caratteristica più peculiare di Nome. Un utilizzo inusuale del montaggio come mezzo espressivo, mescolando scene di fiction con filmati d’archivio senza rompere la finzione scenica. Oppure l’uso di una colonna sonora che presenta sonorità latino americane per raccontare invece l’Africa degli anni ’70.

Troviamo perfino l’uso anacronistico di trucchetti che sembrano usciti fuori dalla cassetta degli attrezzi di George Méliès. In tal senso non si può non citare la scena in cui, per “visualizzare” il rapporto sessuale tra Nome e Nambu, vengono utilizzati una serie di fori sulla pellicola seguito da uno spruzzo. Tutte scelte curiose ma allo stesso tempo stranamente d’impatto.

Molto probailmente è questo il modo migliore per godere del film. Nome è composto di scelte curiose, fuori dagli schemi, che risultano una doccia fredda per chi sia abituato ad un certo tipo di film e di storie. Al di là dei difetti che sicuramente possiede, come la mancanza di chiusura di certe linee narrative, la non spiegazione di certi eventi, il film possiede un gusto davvero unico, capace di far ricordare agli appassionati di cinema perché mai abbiano deciso di dedicare una buona parte della loro vita all’arte della luce e delle immagini in movimento.

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