A Classic Horror Story, la recensione del film su Netflix

A Classic Horror Story recensione film DassCinemag

Il 14 luglio approda su Netflix A Classic Horror Story (trailer), lungometraggio horror diretto da Roberto De Feo e Paolo Strippoli e prodotto da Colorado Film.

A Classic Horror Story è un film citazionistico che rielabora molti spunti del cinema horror internazionale. La premessa infatti ricorda quella di The Texas Chainsaw Massacre, ma “contemporaneizzata”: Elisa (Matilda Lutz), la protagonista, per tornare nel sud Italia dai suoi genitori per le vacanze si trova a viaggiare grazie a un’applicazione di carpooling nel camper di Fabrizio (Francesco Russo), un giovane studente di cinema un po’ impacciato. Ai due si uniscono Riccardo (Peppino Mazzotta), un medico dall’aria losca e Sofia (Yuliia Sobol) e Mark (Will Merrick), una coppia straniera. Viaggiando di notte, per evitare una carcassa, il veicolo sbanda fuori strada finendo in mezzo al nulla.

Da qui il gruppo, spostandosi per ritrovare la strada, scopre una casa misteriosa: da questo momento la trama si cala nel tradizionale immaginario horror contemporaneo. Entrando nella dimora abbandonata, il gruppo scopre una specie di altarino dedicato a tre personaggi folkloristici della zona che si dice abbiano salvato dalla fame il popolo in cambio della sua sottomissione, chiedendo sacrifici periodici e dando vita a quella che oggi viene comunemente definita mafia. È proprio l’ombra di questa leggenda che inizia a perseguitare il gruppo dei protagonisti, in una scia di sangue sempre più cruenta e con un twist sorprendente sulle note di Sergio Endrigo e Gino Paoli.

Come The Nest, il primo lungometraggio di De Feo, A Classic Horror Story riesce a innestare la tradizione culturale italiana con il genere horror sull’esempio di Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci, risultando in un film a metà tra slasher e folk horror, con scene che richiamano esplicitamente cult del genere come Midsommar (2019) e, prima di lui, The Wicker Man (1973).

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Il film è condotto egregiamente da una buona recitazione degli attori, tra cui emerge la protagonista Matilda Lutz, scream queen nostrana già vista in The Ring 3 (2017) e nel rape&revenge femminista Revenge (2018) di Coralie Fargeat. Anche Francesco Russo risulta credibile nel ruolo di Fabrizio, lo studente fallito disposto a tutto per la sua arte che in molti elementi ricorda Franklin, il fratello di Sally nel capolavoro di Tobe Hooper interpretato da Paul A. Partain. Nel cast anche Cristina Donadio, star di Gomorra e la piccola Alida Calabria, celebre per le sue collaborazioni con Garrone.

Il punto di forza del film è sicuramente l’impianto visivo, che dimostra la capacità degli autori di sapersi muovere a proprio agio nel genere approfittando anche della volontà di sperimentalismo del Netflix degli ultimi anni, che già con Curon (2020), sembrava voler aprire uno spiraglio di rilancio dell’horror all’italiana. A risultare un po’ carente è invece la sceneggiatura, costellata di dialoghi un po’ forzati e a volte incomprensibili.

A Classic Horror Story risulta invece interessante per la sua riflessione sui dispositivi e l’interazione tra digitale e vita quotidiana. Fin dalle prime scene, infatti, Fabrizio – aspirante filmmaker – riprende tutto ciò che lo circonda con lo smartphone, un elemento ricorrente, per creare un vlog di viaggio da postare su Instagram e inquadrando i vari passeggeri spingendoli a presentarsi, per far “affezionare” il pubblico. Ma chi è il pubblico di cui si parla? Senza rivelare troppo gli intrecci della trama, il film analizza la performatività delle nostre azioni nell’epoca di internet e il modo attraverso il quale le nostre esperienze diventano tali solo se filmate e quindi viste da qualcun altro, giocando su questa ambiguità. Quanto di quello che vediamo su internet è autentico? Quanto è invece frutto di messa in scena? Quanto può essere alto il grado di interazione tra i dispositivi e il grande schermo?

Nonostante tutto, i social network come Instagram sembrano ormai essere l’unico mezzo in grado di catalizzare l’attenzione degli “spettatori”, a scapito di altre espressioni visive come il cinema. A Classic Horror Story, infatti, è anche un film sulla settima arte, lanciando in particolare una critica al panorama cinematografico italiano. Il compito di questa riflessione in sceneggiatura viene affidato a Fabrizio, in un dialogo ai limiti del didascalico nel terzo atto del film, dove il giovane definisce l’Italia come un paese di “commedie del cazzo o film di youtuber di merda”, aggiungendo che invece in televisione l’orrore vero fa share. Nonostante sia un discorso sicuramente già sentito, questo ragionamento torna anche nel finale ambiguo e quasi meta-cinematografico del film, che dimostra la volontà degli autori di non prendersi troppo sul serio e spingendo anche lo spettatore ad una riflessione attiva: perché diamo così poca fiducia ai prodotti italiani? Perché soprattutto il film di genere viene preso sul serio solo se è straniero?

A Classic Horror Story pone queste domande muovendo una critica non solo al cinema, ma anche allo spettatore medio che non cela i propri pregiudizi, giocando con le sue aspettative e anticipandone le reazioni e in qualche modo schernendolo, soprattutto nel finale. Insomma, il film è un esperimento interessante nel panorama cinematografico italiano attuale che ora più che mai necessita di dare spazio a nuove storie e a nuovi autori, arricchendosi e reinventandosi educando i suoi vecchi spettatori pigri e faziosi, tra citazioni a Sam Raimi e riferimenti alla cultura popolare italiana.

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