Yasujirō Ozu e Hirokazu Kore’eda, l’arte del silenzio e del vuoto

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Negli anni ’30 il cinema giapponese apre le porte ad artisti come Kenji Mizoguchi, Yasujiro Ozu, Heinosuke Gosho, Teinosuke Kinugasa e Mikio Naruse. In questo periodo emergono e viaggiano all’unisono tre generi che avvieranno una ricca e frastagliata produzione cinematografica: il jidai-geki, il gendai-geki e lo shomin-geki. Quest’ultimo è sviluppato a cavallo della commedia e del dramma, mettendo a fuoco la situazione della classe medio-bassa colpita da un’insicurezza economica. I film a carattere shomin-geki si incentrano sulla vita quotidiana della gente comune e in particolare sul dramma familiare (preponderante sarà il tema dell’incomunicabilità fra diverse generazioni). Su questa faccia della vita quotidiana potrebbe trapelare una critica sociale, mai esplicita. Un elemento tanto ricorrente quanto importante e che distinguerà il genere shomin-geki è il concetto di mono no aware, punto cardine della filmografia del regista Yasujirō Ozu.

Dare una definizione al concetto di mono no aware non è semplice. Esso è uno degli aspetti più importanti e difficilmente decifrabili dell’estetica giapponese. L’etimologia è risultata mutevole nel corso degli anni. Ad ogni modo si potrebbe tentare di definire il mono no aware come un sentimento di malinconia che unisce sia l’apprezzamento verso il bello sia la tristezza dovuta alla consapevolezza che esso sia destinato a svanire. Rispetto alle tradizioni occidentali, la vita, strettamente connessa con la cultura e le arti, viene goduta appieno attraverso l’accettazione e la celebrazione di quello che il buddhismo chiama impermanenza, la transitorietà delle cose.

L’importanza di Ozu sta nel fatto che egli riprende il genere shomin-geki e lo modella conferendogli un’aura unica, passando dalla commedia leggera (qui possiamo citare uno dei suoi primi film muti Sono nato, ma… del 1932) al concetto di mono no aware. Il suo lavoro è intriso di quella tradizione antica giapponese, in particolare del pensiero Zen dal quale ricava quello che sarà uno dei linguaggi principali del suo cinema, il mu. Il mu è il concetto di negazione che si fa vuoto, silenzio, rarefazione, e sembra permeare sempre più le opere di Ozu nella tarda fase della sua vita.

Col passare degli anni si può notare come, soprattutto nei suoi ultimi film, lo stile di Ozu sia divenuto sempre più asciutto e non abbia mai transatto ad orpelli o virtuosismi cinematografici che potessero inficiare sulla realizzazione delle sue opere. Nonostante sia stato definito il regista “più giapponese” dei grandi cineasti giapponesi, il suo registro rimane unico. Il cinema del regista è riconoscibilissimo: angolo di ripresa basso, preferenza per inquadrature fisse, disinteresse per la regola dei 180º e sfondamento della quarta parete, ma soprattutto i pillow shot, stacchi che non seguono la tradizionale logica narrativa, ma fortemente metaforici, e l’effetto sojikei, termine coniato dai giapponesi nel descrivere due attori che si muovono allo stesso modo.

Uno dei più famosi pillow shot, fonte di dibattito di studiosi e critici cinematografici, è presente in Tarda primavera (Banshun): una delle sequenze finali mostra stacchi tra la ragazza piangente di nome Noriko (Setsuko Hara) e un comune vaso, alternandolo prima con il sorriso dell’attrice e poi col suo pianto. In queste sequenze il mu è al suo apice. Il vuoto, l’assenza e il silenzio sono elementi che hanno un ruolo attivo nel suo cinema e nell’arte Zen, e mai passivo. Sono il suono e i dialoghi a dare significato al silenzio. La sobrietà e l’apparente quiete tecnica dei film di Ozu lasciano dialogare silenziosamente i personaggi, esenti da qualsiasi interpretazione fittizia e a tratti inespressivi, con il silenzio delle inquadrature, e il tutto si condensa con una composizione che guarda alla meditazione più assoluta in cerca della comprensione dell’essenza della realtà. In quei silenzi si dispiega quindi il mu.

Il 2008 è l’anno della nascita del capolavoro di Kore’eda: Still Walking (Aruitemo Aruitemo, trailer). Secondo Kore’eda, il film è nato da un senso di rimpianto dopo la morte dei suoi genitori. Il regista si sentì in colpa dopo aver rifiutato di andare a fare visita alla madre, che nascondeva di essere malata, preferendo al suo posto il lavoro. Summa della poetica del regista, il film è un chiaro rimando ad Ozu e al suo cinema, in particolare Viaggio a Tokyo (Tōkyō monogatari) del 1953. Un encomio da parte di Kore’eda che raggiunge la sua piena maturità stilistica.

Egli mette in scena un ritratto di una famiglia che cova da anni una sofferenza trainata dal ricordo di un evento tragico. Una volta l’anno la famiglia Yokoyama si riunisce per commemorare il figlio maggiore Jumpei, morto in mare per salvare un amico dall’annegamento. Malvolentieri, Il figlio minore Ryota (Hiroshi Abe) dovrà presentare alla sua famiglia la sua nuova moglie (Yui Natsukawa), una giovane vedova con un figlio (Shohei Tanaka), scontrandosi con suo padre (Yoshio Harada) che ha da sempre coltivato un profondo astio nei confronti del figlio ancora in vita.

Semplice e toccante, la maggior parte della storia si svolge nella casa dei genitori tra dialoghi sconnessi e convivenza ostile, in particolare col padre, scorbutico e severo, che non si è rassegnato della scelta del suo unico figlio di non aver seguito la sua stessa strada, cioè quella di diventare un dottore. In quasi tutta la durata del film serpeggiano risentimenti e delusioni e sembra che i conflitti non riescano ad appianarsi. Eppure, nonostante la semplice e costante presentazione della quotidianità in un ambiente familiare, non mancano momenti imprevedibili come lo sfogo della gentile madre (Kirin Kiki) che dimostra in maniera inaspettata una violenza psicologica verso il ragazzo che è stato salvato, insultandolo e schernendolo. L’anziana tenta di farsi strada nel suo travaglio interiore per mezzo di ingiurie e illusioni.

In questo ambiente avverso e inadeguato, nonostante sia un ritrovo tra i diversi membri di una famiglia, però, possono emergere bagliori di felicità, scaturiti dal ricordo e dalla memoria, da un album fotografico, da una canzone o semplicemente seguendo una ricetta culinaria (il mais fritto cucinato nel film era la ricetta della madre del regista). Infine, miracolosa è la scena tra l’anziano padre, Ryota, e suo figlio, che si ritrovano sul luogo dove si è consumato quel tragico evento, la spiaggia. I conflitti paiono appianarsi e il ricordo accorato di Jumpei dissolversi, sebbene sia una presenza costante in tutta la storia.

Tutto questo è ricavato straordinariamente da delle tecniche che rimandano a Ozu e molte volte, in maniera inaspettata e straniante, mostrano all’occhio dello spettatore qualcosa di “fermo”, qualcosa che, comprensibilmente, ad una prima visione sembra incapace di avere un dato potenziale. Viaggio a Tokyo e Still Walking sono opere che rientrano in uno schema ben preciso, fondate su caratteri molto simili. Da eventi quotidiani, ma soprattutto su dinamiche familiari, esplodono i caratteri universali riguardanti la sfera umana. I Due registi si muovono su temi come l’educazione, l’impermanenza del tempo e della vita, l’importanza della memoria e di come essa sia capace di influenzare il presente e non solo.

E’ chiaro come lo stile di Ozu abbia scavato nelle fondamenta della tradizione giapponese, mostrandola attraverso il cinema. Egli ha influenzato diverse generazioni di registi, aiutando a creare nuovi stili ed espressioni. I film di Kore’eda riescono ad empatizzare maggiormente con lo spettatore occidentale, a differenza dello stile difficilmente comprensibile di Ozu. Kore’eda deve molto agli insegnamenti del maestro giapponese, ma non deve essere considerato un suo erede diretto. I richiami, le analogie e la forte poeticità sono presenti, ma con uno stampo registico differente.

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