#Venezia80: Origin, la recensione del film di Ava DuVernay

Origin

Che significato ha oggi la parola razzismo? Può essere un termine usato indifferentemente per le così diverse forme di discriminazione racchiuse al suo interno? E se sì, qual è il tratto fondamentale che accomuna queste forme? Simili domande potrebbero essere i quesiti alla base di un’opera saggistica, e invece si rivelano il percorso di indagine descritto in Origin (trailer), nuovo film di Ava DuVernay in Concorso alla 80° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Opera che, d’altra parte, mette in scena proprio il processo di stesura di un saggio, raccontando la vita della scrittrice premio Pulitzer Isabel Wilkerson e la realizzazione del suo libro Caste: The Origin of Our Discontent.

È notte. Un ragazzo esce da un negozio dove ha appena comprato degli snack. Inizia a camminare, sta tornando a casa. Una scena comune, apparentemente normale. Ma c’è un “problema”, se così può essere definito: quel ragazzo è di colore. E c’è un secondo problema, che rende più pressante il primo: il quartiere in cui sta camminando è un “quartiere di bianchi”. All’improvviso il giovane si accorge di essere seguito da una macchina. Prova a fuggire, l’auto lo insegue. Ne esce un uomo con fare violento ed una pistola in mano. Ne segue una colluttazione. Ne segue uno sparo. A prima vista potrebbe sembrare un classico episodio di razzismo, uno dei tanti che avvengono ogni giorno negli Stati Uniti nei confronti degli afroamericani. Ma c’è un problema, c’è un terzo problema. L’uomo che ha fatto fuoco non è un bianco. L’uomo che ha fatto fuoco è un ispanico, appartenente a sua volta ad una minoranza della popolazione americana.

Da questo episodio parte la ricerca di Isabel (Aunjanue Ellis), apprezzata scrittrice afroamericana sposata con Brett (Jon Bernthal). L’omicidio del giovane le fa sorgere un’intuizione. Perché un ispanico si è sentito in dovere di “difendere” un quartiere di bianchi da un afroamericano? Non può essere una questione razziale a motivare quel gesto, almeno non effettivamente. Dev’esserci, quindi, un meccanismo di fondo ad aver azionato quell’atto. Un meccanismo che Isabel vede all’opera in qualsiasi altra forma di discriminazione della storia umana, come un fil rouge che unisce la segregazione razziale negli Stati Uniti allo sterminio degli ebrei nella Germania nazista, fino al sistema delle caste e dei cosiddetti “intoccabili” in India.

Origin mette in scena il processo di elaborazione di un’idea, di un concetto universale, calandolo in una pellicola che vuole essere racconto solo come pretesto. Ava du Vernay sceglie di inserire la forma del documentario all’interno di una cornice narrativa che pare alquanto debole – la vita di Isabel, la perdita uno dopo l’altro di tutti i suoi affetti – che serve solo a configurare lo spazio narrativo nel quale inserire la sua componente di teoria sociale.

All’interno di questa cornice trovano spazio anche altre storie, corpi estranei dello stessa natura, che raccontano episodi storici di discriminazione. Anche in questo caso le sorti di tali personaggi hanno decisamente poca presa, così che la loro presenza finisca per sembrare un riempitivo. D’altra parte la storia personale di Isabel – che perde tutti i suoi cari – dovrebbe mostrarci come di fronte al dolore, alla perdita e alla forza degli affetti ogni spettatore possa ritrovarsi parte di una storia universale, con cui empatizzare in senso assoluto. Tale versante del film risulta però per lo più inefficace, slegato dal resto, spingendo a volte in modo eccessivo sul patetismo.

Con Origin Ava DuVernay si pone l’ambizioso proposito di scandagliare l’origine dell’ingiustizia nel mondo, intento nobile che riesce a veicolare efficacemente le teorie e le riflessioni sociali alla base. Tuttavia, per essere un’opera cinematografica si presenta in modo eccessivamente didascalico, specialmente nell’ultima sua parte – che sembra quasi abbandonare la narrazione per trasformarsi in semi-documentario. Resta la validità e la pregnanza di significato del contenuto, ma la riuscita del film è fortemente inficiata dalla sua forma, che lascia poco spazio per la godibilità narrativa.

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