Holly è una quindicenne schiva, dal carattere cupo e isolata dal contesto scolastico. Gli altri ragazzi la chiamano “la strega”, la deridono come se toccandola portasse sfortuna. Una mattina la giovane chiama la scuola. È in preda al terrore, afferma che sta per succedere qualcosa di terribile. A distanza di nove mesi da quel giorno, in cui un incendio ha causato la morte di dieci ragazzi, la comunità è ancora alle prese con l’elaborazione del lutto.
Sono queste le premesse di Holly, film della regista belga Fien Troch in Concorso alla 80° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Un’opera che vuole riflettere sul disagio giovanile con una storia silenziosa e allo stesso tempo schizofrenica, popolata da personaggi in preda ai propri traumi e tutta sorretta dal volto spento della sua protagonista. Dopo la tragedia Holly (Cathalina Geeraerts) viene coinvolta in delle attività di volontariato da Anna (Greet Verstraete), sua professoressa, incuriosita dalla strana premonizione che la ragazza ha avuto. Il gruppo di volontari si rende conto che la presenza della ragazza è benefica per chi gli sta intorno, quasi come se avesse il potere di alleviare ogni sofferenza e malumore.
Quella di Holly è la storia di una comunità spezzata, di individui inghiottiti da un dolore sordo e impercettibile. È il racconto di una società incapace di affrontare la sofferenza, e perciò soffocata dal bisogno di trovare una panacea – o quantomeno un placebo. Ma è, anche, la storia di una ragazza qualunque che diviene oggetto di quello stesso bisogno, trasformata a sua insaputa alla stregua di un santone. In tale dinamica la ragazza rimane totalmente straniata dal suo contesto, confusa sulla natura delle proprie azioni e distaccata dai personaggi con cui interagisce. Da una parte continua a trovare ostilità ed indifferenza da parte dei suoi coetanei e compagni di scuola, dall’altra è sempre più richiesta con bramosia dagli adulti, i quali vedono in lei solo una funzione da sfruttare per lenire i propri vuoti. Voci fuori dal coro di questi due opposti gruppi sono Anna e Bart (Felix Heremans), ragazzo problematico – dal vago spettro autistico – con cui Holly stringe amicizia.
Fien Troch sceglie di adottare per il suo racconto un registro crudo e teso, seguendo un ritmo altalenante per tutta la durata della pellicola. I dialoghi rimangono pressoché radi, condotti in modo cadenzato quando presenti, con la timida protagonista che si mostra sempre refrattaria ad esprimersi a parole. Per lunghi momenti la telecamera indugia sul suo volto e sull’ambiente in cui i personaggi si muovono, affidando largo spazio alla colonna sonora. Proprio quest’ultima occupa un posto di primo piano nell’economia del film, contribuendo a creare un’atmosfera di opprimente disagio. Ne risulta però un tono sempre sovraccarico, spossante, che si presta a lungaggini mostrative e rischia di anestetizzare la capacità empatica dello spettatore.
Con sentimenti di straniante sofferenza, Holly raffigura la propria giovane protagonista stretta nella morsa di una società svuotata dall’interno. Allo stesso tempo ne racconta la ricerca di una propria utilità, il tentativo di evasione dal suo essere emarginata – attraverso l’aiuto del prossimo – e quindi di converso il suo percorso di crescita adolescenziale – tra i temi più rappresentati a Venezia 2023. L’ambigua idea di fondo su cui poggia il film potrebbe essere accattivante, di certo funzionale, ma in definitiva viene compromessa da modalità di messa in scena che appesantiscono lo sguardo e la narrazione.