#Venezia79: Call of God, la recensione dell’ultimo film del compianto Kim Ki-duk

Call of God

Presentato alla Sezione Orizzonti presso la settantanovesima edizione della Mostra d’arte cinematografica di Venezia Call of God (2022) di Kim Ki-duk, scomparso a causa del Covid nel Dicembre 2020, è la spietata galleria orrorifica di un’umanità in crisi che non riesce più a sostenere la realtà materiale. Sebbene l’ultima opera del compianto regista sudcoreano non si avvicini minimamente alle deformazioni del mondo concreto proposte dal Surrealismo, Call of God riprende la quota da sogno di questo movimento artistico per creare una sequela di quadri sconvolgenti che derivano dal subconscio della coppia protagonista. La storia d’amore tossico tra la Donna (Zhanel Sergazina) e l’Uomo (Abylai Maratov) è il risultato onirico dell’oscurità abitante i personaggi. Mentre un misterioso numero la chiama continuamente al cellulare, Lei intraprende in sogno una relazione mostruosa con un Lui ancora sconosciuto. Porre l’amore al primo posto è l’unico proposito della coppia e chiunque emani una forte carica sessuale, tale da provocare la gelosia del partner, deve essere evitato o addirittura eliminato.

Call of God è, in tal senso, il delirio narcisistico di individualità distruttive che vivono lasciando emergere la loro personalissima psicopatia profonda. L’opera di Ki-duk è un esercizio d’introspezione difficile da guardare. Ogni sua scena spinge ai limiti l’umano desiderio, lascia detestare i suoi personaggi repellenti e si carica di un’intensità aberrante nel corso della narrazione a flusso ininterrotto. Il montaggio è a tratti caotico e sconnesso, e la sceneggiatura chiarisce luogo e personaggi agenti soltanto quando dobbiamo dare un giudizio forte su quello che accade. I climax sono ovunque e i personaggi seguono spesso una logica che si contraddice immediatamente: la protagonista sembra essere preda di un disturbo bipolare di personalità (mai chiarito) quando, nella scena iniziale in bagno, ride prima con dolcezza ed urla poi senza ritegno; il protagonista afferma prima di amare solo lei e poi si precipita al bar della sua ex fidanzata per picchiare il nuovo compagno. Menzogna? Non ne siamo mai certi, perché nell’onirico nulla è mai lineare e coerente. Possiamo considerare queste condizioni e questi atteggiamenti soltanto come solide premesse drammatiche per costruire tanto i personaggi quanto gli scenari che potrebbero derivare dalle loro azioni.

Call of God è un incubo aberrante in cui i personaggi, oltre a pentirsi ipocritamente delle scelte passate, augurano il male a chiunque si permetta di entrare in contatto col partner. Il protagonista chiude una relazione con una vecchia fiamma; colpita comunque da un impeto di rabbia e di rivalsa ingiustificati, Lei lascia il telefono di Lui in vivavoce e fa in modo che la vecchia fiamma li ascolti mentre hanno un rapporto sessuale. La donna intraprenderà dunque una vendetta implacabile nei confronti dell’umanità e, indirettamente, punirà anche l’uomo. Il contatto con un’altra femmina, secondo le ragioni della protagonista, può avvenire solo quando questa è morta: la vecchia fiamma della chiamata in vivavoce si è tagliata le vene per disperazione e umiliazione; adesso Lui può “parlare” alla sua lapide poiché, essendo deceduta, la vecchia fiamma non può avere più alcun contatto con Lui. La storia di Kim Ki-duk non è altro che l’atto criminoso di vivere senza perdono e accettazione alla stregua della nostra ombra. Call of God porta allo stremo i nostri desideri e immagina, (fortunatamente) sempre in sogno, quali scenari potrebbero aprirsi se noi assecondassimo il nostro Iato psicopatico. Il risultato, come realizzeranno i protagonisti ad un certo punto del film, è una prigione autoimposta dalla quale non si può uscire per paura tanto del contatto col mondo esterno quanto della manifestazione dei nostri pensieri più tetri.

L’atmosfera da sogno ricorda moltissimo la scena dell’incubo de Il posto delle fragole (1957, Ingmar Bergman) – Isak percorre una strada deserta e trova la bara con all’interno il suo stesso corpo – quasi come se i protagonisti di Kim Ki-duk fossero alla perenne ricerca di un qualcosa di sicuro come la morte; è per questo che il film si chiama La chiamata dal cielo? L’ultima inquadratura su un semaforo potrebbe essere invece un rimando a l’ultima scena de L’eclisse (1962) di Michelangelo Antonioni, quando un gruppo di persone attraversa una strada illuminata dal bagliore cocente di un lampione; cosa significa? Call of God di Kim Ki-duk è sotto numerosi punti di vista un mistero onirico che s’infittisce sempre più a causa di un bianco e nero colmo di autorialità e psicologia. Il testamento del regista coreano solleva numerose domande e non si spinge a dare delle risposte esaurienti in alcun modo. L’enigma rimane irrisolto… e forse è meglio così.

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