#Venezia80: Felicità, la recensione del film di Micaela Ramazzotti

Felicità, la recensione del film di Micaela Ramazzotti, fuori concorso alla Ottantesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia.

Micaela Ramazzotti, al suo esordio dietro la macchina da presa con Felicità (trailer), film presente nella sezione Orizzonti Extra della Ottantesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, parte da un sentimento primario, quello più desiderato e inseguito, da un anelito universale per raccontare quanto la sua ricerca sia difficile in un contesto disfunzionale in cui chi dovrebbe educare alla felicità non sa assolvere alla propria funzione. Felicità, sempre perseguita e mai afferrata, paradosso zenoniano quasi mai smentito.

Claudio (Matteo Olivetti) non è felice, il padre (Max Tortora) preme affinché inizi a lavorare come autista. Il genitore lo ha fatto spesso: ha premuto per scongiurare la possibilità che Claudio “perdesse il treno”, che finisse per diventare un “buono a nulla”. Ma il treno dello chauffeur deraglia: Claudio tenta il suicidio, è depresso. Trova rifugio solo nella comprensione incondizionata della sorella, Desirée (interpretata da Micaela Ramazzotti), che si arrabatta tra i set cinematografici come parrucchiera, e ha una strana disposizione all’accondiscendenza. È ingenua, semplice, ma ha un grande cuore. Desirée è vittima, come suo fratello, di una conduzione genitoriale fallace e pregiudicante, e non sarà facile gestire una situazione tanto delicata tra mura domestiche che non hanno orecchie e non vogliono sentire ragioni, e una storia sentimentale che vive delle proprie problematiche.

È un film sulla felicità (e il suo opposto), ma è soprattutto un film che parla di amore, uno guasto e irreparabile, un amore di sé più che per gli altri; un amor proprio (che è forse odio), per gli atri solo in funzione di sé, egoistico nonostante abbia radici materne, paterne e, dunque, idealmente prioritario, sicuro, embrionale. E parla dei danni devastanti di questo disamore, della responsabilità dei genitori sulla sanità (o meno) mentale dei figli e sulla loro incapacità di accettarla, ancora egoisticamente attaccati ad un’apparenza di sé che vogliono inappuntabile e senza sbavature, terrorizzati dalla colpa. Genitori che veicolano le scelte dei figli, pronti a “piazzarli” per sentirsi alleggeriti, ad umiliarne non solo le decisioni, ma l’esistenza.

Uno scontro che è anche generazionale, fautore di una distanza incolmabile tra chi non comprende chi con difficoltà trova un posto nel mondo nell’aleggiante incertezza della contemporaneità e chi, sensibile, subisce le conseguenze di una fatale mancanza di punti di riferimento. È la tipica sottovalutazione dei problemi dell’”era del benessere” e la sopravvalutazione degli ostacoli di un periodo di privilegiati; privilegiati perché indirizzati, sicuri, meno soggetti ad una precarietà esistenziale, non dati in pasto ad una società disorientata.

Quello di Micaela Ramazzotti è il ritratto severo di una genitorialità inferma non poco comune, e lo è anche di una condizione psicologica spesso sminuita, che però la regista tratta con dolcezza, ereditando la delicatezza di chi ne ha diretto le interpretazioni passate (Virzì e Archibugi su tutti), fornendo una prospettiva reale, scevra da costrutti sensazionalistici. Proprio per questo Felicità raggiunge picchi di intensità emotiva ben supportate da prove attoriali a fuoco: Micaela Ramazzotti commuove, Max Tortora si fa odiare, Anna Galiena innervosisce.

Ramazzotti confeziona un film dignitoso, che trova la propria ragion d’essere nel trattamento delicato e amaro della malattia mentale, nel ritratto sincero e mai melodrammatico, mai pietoso, della depressione e, soprattutto, delle ragioni che ne determinano la nascita e il decorso. Fa un buco nell’acqua, però, quando deve assicurare alla pellicola un focus preciso, orientare circa il personaggio, la questione, il nucleo portante ed evitare ridondanze, lungaggini, scene funzionali a forza. E lo fa anche quando deve risolvere il viluppo, quando è tenuta ad occuparsi della crescita di quei personaggi che tanto autentici aveva reso, quando è suo compito mostrare anziché elidere e non lasciare la sensazione di un prodotto manchevole di un tassello importante, che lo spettatore, empatico, desidera vivere; che l’analista, critico, riconosce in una componente narrativa assente.

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