#Venezia79: The Eternal Daughter, la recensione del film di Joanna Hogg

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Joanna Hogg dalla sua vita aveva già tratto due film, gli autobiografici The Souvenir Pt. 1 e Pt.2. Opere magne, raccoglitrici di una gioventù con la quale l’autrice inglese si metteva a confronto con una lucidità quasi spietata, con una consapevolezza mai accondiscendente nei confronti del dolore che una relazione tossica le aveva provocato. La Hogg si prendeva di petto e non si risparmiava nel mettere in scena gli angoli più scomodi di una se stessa fragile, un alter ego vulnerabile alle prese anche con la realizzazione del primo film.

Era presente già un rapporto con la madre, interpretata da una Tilda Swinton che in The Eternal Daughter, in Concorso alla 79esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, raccoglie nuovamente l’eredità di un personaggio che trasla pellicola ma mantiene l’esigenza di fondo della riflessione personale della regista. Un racconto che questa volta assume i contorni dell’esorcismo anche e soprattutto nella forma, pensato sui toni spettrali dell’haunted movie che si apre con i fari di una macchina che tagliano la nebbia di un bosco che incombe minaccioso.

I rami degli alberi formano ragnatele sopra la testa di una madre e di una figlia, entrambe interpretate da Swinton, in procinto di recarsi in un hotel nel bel mezzo della campagna gallese. Questa magione ampia, piena di stanze rumorose ma in apparenza con nessun ospite a parte loro due, era un tempo la tenuta di famiglia. A popolare la struttura ci sono solo la scontrosa e svogliata receptionist (Carly-Sophia Davies) e un anziano inserviente (Joseph Mydell). Il resto è un dedalo di corridoi e scale appesantiti dalla penombra da cui arrivano scricchiolii, passi sul parquet, tonfi e tutta una serie di richiami uditivi che avvolgono e turbano la tranquilla trasferta delle due donne.

È l’occasione per festeggiare il compleanno della madre e allo stesso tempo rievocare i ricordi di un periodo lontano, di affrontare fantasmi tenuti chiusi nel cassetto. La Hogg non le riprende mai all’interno della stessa inquadratura e lascia che i loro discorsi condividano solo lo stesso tempo, in un flusso di coscienza che assume i tratti del soliloquio.

Intorno c’è la cifra di un cinema etereo ed estremamente minimalista, giocato su una ripetizione di luoghi e tonalità visive che dopo un po’ finisce per esaurire la carica di mistero ed esoterismo. Non che sia sommerso il chiaro intento di un film la cui essenzialità è da prima significante di un cinema di pochi mezzi girato durante la pandemia da Covid-19, con una ristrettissima rosa di personaggi e situazioni che vogliono evocare l’affronto al ricordo, l’elaborazione di un qualcosa rimasto incastrato negli interstizi di queste porte cigolanti.

Il discorso che The Eternal Daughter porta avanti è una costola di quello dei The Souvenir, con ancora una volta un film da fare e che deve parlare di chi lo sta scrivendo, con ancora una volta un qualcosa che si blocca in gola e non permette di deglutire il boccone. Ma dei The Souvenir questo film non ne possiede né l’acutezza dello sguardo (le soluzioni alla casa degli spettri troppo scialbe, troppo poche) né la profondità d’elaborazione di un trauma che si risolve in uno sbuffo di nebbiolina fuori dal giardino. Forse Joanna Hogg non raggiunge la quadra nella tiepida cornice di genere che sceglie di adottare, o forse questa volta si è ritrovata tra le mani semplicemente meno cose da dire.

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