#Venezia79: Siccità, la recensione del film di Paolo Virzì

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Che pasticciaccio brutto quello di Siccità (trailer). Lo porta Paolo Virzì nel Fuori Concorso della 79esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e lascia il segno solo in negativo. Un’opera pensata come corale (nel cast Valerio Mastandrea, Silvio Orlando, Claudia Pandolfi, Max Tortora, Elena Lietti, Tommaso Ragno, Emanuela Fanelli, Gabriel Montesi e potremmo andare avanti) che riesce a essere sbagliata nelle intenzioni e nella resa.

La premessa è questa: a Roma è finita l’acqua. La città sta attraversando da circa un anno una profonda crisi idrica che ne ha prosciugato tutte le sorgenti, compreso il Tevere. La gente si arrangia come può e si mette in coda per riempire una tanica d’acqua dalle autocisterne che arrivano dalle altre regioni. Viene quindi lasciato intendere che la questione riguardi solo la capitale, che fa un po’ da simbolo di un film tutto metaforico che si azzoppa da solo nel gonfiare le sue metafore con spocchia e faciloneria.

Da cartelli che recitano l’hashtag #romacelafarà, da alcune persone che indossano mascherine chirurgiche, da un’epidemia di febbre che a un certo punto scoppia tra le persone è chiaro pure il sottotesto che fa eco alle difficoltà vissute negli scorsi due anni con la pandemia di Covid-19. Dove il film voglia portarlo a parare però non è che sia così altrettanto chiaro. Anzi, la sceneggiatura scritta da Virzì assieme a Francesca Archibugi, Paolo Giordano e Francesco Piccolo vorrebbe proporsi come un compendio a tutto tondo dello spettro sociale italiano proprio ai tempi della pandemia. C’è chi sta sui social predicando filosofia a buon mercato, chi è ricco e fa un po’ come cavolo gli pare, chi combatte questa realtà nella corsia di un ospedale, chi invece finisce come volto ricorrente al telegiornale. C’è un po’ di tutto, compresa una spruzzatina di politica messa in bocca al disperato di turno tanto per fare quota.

Ma cosa debba farsene Siccità di questo cestone a metà tra il populismo e il “andrà tutto bene” non si capisce, perché non lo convoglia mai da nessuna parte se non in qualche gioco all’incrocio che tanto piace al cinema sociale di Virzì (pensiamo a Il capitale umano). Ma sulla sua struttura non riflette mai, tra l’altro allestita con un fare spiccatamente on the nose e con alcuni echi in ritardo rispetto al Don’t Look Up di Adam McKay, che perlomeno aveva chiaro il voler ragionare sullo stato dell’informazione contemporanea.

No, qui c’è solo uno spezzatino confuso e confusionario incapace di gestire anche le sue moltissime linee narrative, che prende e magari poi abbandona prima di tornarci per qualche minuto verso la conclusione. Un film che espone in vetrina lo stereotipo (del benestante, del tamarro, del proletario) senza argomentarlo o porlo all’interno di una discussione che vuole abbracciare tutto senza stringere niente. Anzi, alcuni li condanna e altri li salva in maniera totalmente arbitraria.

E in virtù di questo appare quindi fastidioso, se non puerile, utilizzare in modo così sterile l’argomento epidemico (che è la vera anima del film) mettendolo per di più in relazione al cambiamento climatico. Pure qua, per fare affresco. Implicazioni forti, nette, che Siccità sfrutta come pretesto per far muovere una giostra sbilenca che gira al buio su se stessa. Al prossimo appuntamento.

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