#Venezia79: I figli degli altri, la recensione del film di Rebecca Zlotowski

i figli degli altri

I figli degli altri è un adagetto sentimentale con rarissime fiammate di simpatia, un tentativo di ritratto ritmato su misura di una donna persa nelle frenesie della propria vita. Rachel (Virginie Efira) corre di qua e di là per cercare di essere sempre puntuale: a lavoro, negli appuntamenti, nel ritorno a casa; quando però di fondo pare essere in ritardo su quello che in realtà vorrebbe: la costruzione di una famiglia vera e propria, l’avere magari un figlio suo.

Qui attorno gironzola il nuovo film di Rebecca Zlotowski, presentato in Concorso alla 79esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Lo scrive pigramente e dirige abbastanza male, tirando fuori dall’esistenza in movimento di Rachel il minimo essenziale per mettere su un’accettazione che in certi frangenti, in certe corse per strada pare attingere pure da La persona peggiore del mondo. Dell’urgenza del film di Trier chiaramente non coglie nulla, fosse solo per le differenti discussioni generazionali messe sul banco.

C’è comunque un rapporto con il quale prendere le giuste misure, quello che la lega ad Ali (Roschdy Zem), separato ma con una figlia che quando le viene presentata Rachel inizia a sentire pure un po’ sua. Non che sia impresa facilissima, visto che la bambina continua a rigettarla continuamente e a chiedere della sua vera mamma (Chiara Mastroianni), a rimarcare in faccia a Rachel il suo essere corpo estraneo, un qualcosa d’esterno rispetto a quel nucleo in cui la donna sta cercando timidamente di inserirsi.

E sul corpo della Efira I figli degli altri pone uno dei suoi pochissimi discorsi degni di nota. Mostrato in diversi frangenti nudo, desiderabile, oggetto di attenzioni e pulsioni da partner, studenti, amanti che lei pare ignorare mentre si concentra sul fatto che è proprio quel suo corpo, all’interno forse sterile, a impedirle di ottenere ciò che davvero vuole dalla vita. Una riflessione che insomma si muove sul classico dualismo tra attese sociali e desideri personali, che nel caso del rovescio nel quale è costretta questa figura di donna assumono tutto un altro valore e assumono nella distanza una connotazione ancora maggiore.

Qui la Zlotowski si gioca le sue poche carte ma pare non avere abbastanza grano in cascina per foraggiare un film che non impiega poi molto a esaurire soluzioni narrative e creative. Gira un po’ a vuoto, taglia con l’accetta i sentimenti e quando è a corto di idee ricorre anche ai numerosi ed abusatissimi accompagnamenti corali per sottolineare il trotterellare della sua protagonista. I figli degli altri prova quindi a configurarsi come affresco snello e pimpante (decide di castare anche Frederick Wiseman nella parte di un anzianissimo ginecologo, che perlomeno strappa una risata prima di farti chiedere perché), ma inciampa nel tentativo di conciliarlo all’agrodolce accettazione del sé perché ha poco con cui fare da collante nel mezzo.

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