The Tax Collector, la recensione dell’ultimo film di David Ayer

The Tax Collector

In un momento di solidale partecipazione collettiva al ripristino dell’ordinary life, l’incontaminato universo mediale informa le nostre interminabili giornate e costringe noi, mirabili cowboys dell’internet e illusi domatori dell’evanescente, ad esplorare gli ora più che mai sentieri selvaggi dei Big Data. Caratterizzati tra le altre cose dal prepotente desiderio di fagocitare golosamente l’esperienza della visione, rinchiudendola ed esasperandola tra le sempre più anguste mura di casa, i servizi on demand, ciò nonostante, si propongono anche come sterminate biblioteche dello scibile che vogliono sensibilizzare umanamente e animare costruttivamente lo sguardo interessato degli spettatori.

I dibattiti contemporanei sulla donna, come persona tout court non assoggettata ai canoni della storia, e sulle minoranze etniche, come gruppi di individui agenti in situazioni transculturali, trovano una loro seppur piccola ma alquanto straordinaria voce proprio con i servizi streaming di Netflix, Amazon Prime Video, Disney+, Chili, Apple Tv+ ecc. Distribuito a noleggio su alcuni di questi cataloghi arriva anche The Tax Collector (qui il trailer) di David Ayer, col quale il regista statunitense prosegue il personalissimo discorso politico sull’epica barbara dei subalterni di Los Angeles, costretti a sopravvivere in una giungla d’asfalto sporca e violenta.

Alquanto incredibile in tutta la filmografia di David Ayer è la coraggiosa, ma non priva di soffocanti incagli, capacità dello stesso regista e sceneggiatore di riorientare energicamente la bussola verso l’irresistibile punto cardinale di Training Day (2001), diretto da Antoine Fuqua e scritto proprio da Ayer, e di riaggiornare ambiziosamente la discussione politica sui reietti attraverso il recupero dell’ancestrale dialettica tra Bene e Male. Questa tematica è tenace e favolosa costante del percorso creativo di Ayer, riplasmata continuamente e condotta in più occasioni con sentita confusione narrativa assieme alle questioni di integrazione salvifica in un deserto di dolore e sofferenza, dissidio asimmetrico tra forze di potere e soldati e presenza orribilmente nascosta delle autorità.

Se Suicide Squad (2016) e Bright (2017) sempre di Ayer lanciavano, seppur goffamente, nel fantasy queste cruciali argomentazioni che permeano irriducibilmente l’attualità, The Tax Collector le ripropone in maniera ancora più impacciatamente smarrita sul terreno di realtà, depotenziando tragicamente la vena guerriera dei protagonisti e tirando in ballo sempre più personaggi (anche questa è una costante di Ayer) che non godono mai di un respiro mitico e che finiscono disgraziatamente per essere ingredienti persistentemente soporiferi di un brodo di carne scaduta.

The Tax Collector

Il nuovo film David Ayer si allontana dalla monumentale e inossidabile scrittura di Training Day – la giornata dei poliziotti Jake e Alonzo è un crescendo di sangue e tradimenti, in cui emerge la consapevolezza benefica del primo sulla deviata e incostante concezione del mondo del secondo – e si manifesta come un lacerante spettacolo d’intrattenimento, becero e epidermico, in cui due giornate segnano il passato e futuro dei protagonisti. David (Bobby Soto) e Creeper (Shia LaBeouf) sono gangster ed esattori delle “tasse” che ogni gang di Los Angeles deve pagare al grande capo Wizard (Jimmy Smits); i due sono impegnati in una giornata di riscossione e quindi già integrati in un mondo criminoso che sembra amarli e temerli in un primo momento (“Nessuno può toccarti”, dice Creeper a David); ciò nonostante, il ritorno ad L.A. di un secondo e sanguinario boss, Conejo (Jose Conejo Martin), cambierà le carte in tavola e i protagonisti saranno costretti a combattere per sopravvivere.

Alla ben definita divisione in tre momenti lampanti (presentazione dei personaggi, crisi e vendetta) segue uno sgradevole depotenziamento dei protagonisti (specie quello di Shia LaBeouf) che li costringe ad annegare in una narrazione soffusa, ordinaria e lineare, e che fa emergere domande: cosa hanno fatto David e Creeper per essere così importanti? Perché ci sono tante gang rivali che pagano una quota ad un boss comune? Come mai degli esattori NON contano i soldi? Siamo ad L.A. e si vede solo una macchina della polizia? Creeper è soprannominato “il diavolo”; ha “una pistola di riserva su tutte e due le braccia e su entrambe le caviglie”, eppure in uno scontro decisivo, da Far West contemporaneo, è il primo che va a terra e che usa solo una pistola. Il personaggio di Creeper, interpretato con forza straordinaria da LaBeouf, è fortemente linciato da una narrazione che vuole a tutti costi vederlo morto, ma ciò contrasta con i primi quarantacinque minuti del film in cui egli appare come una “macchina” (così egli si definisce nel film) temeraria, violenta e manipolatrice.

Probabilmente, basandoci sui dati offerti dal film, l’intento di Ayer consisterebbe nel mostrarci che anche i famigerati e visibili diavoli si muovono senza raziocinio, sfidando la sorte tra un quadro e l’altro della scacchiera. Ogni soldato/gangster ha la sua casella, ma combatte per un re/demonio ancora più cattivo, freddo e spietato, che solo raramente si mostra fisicamente e arbitrariamente manda al macello le sue truppe. Così è il burattinaio Wizard che chiama il protagonista David da un luogo sconosciuto (forse una cella), e non mostra mai il volto, se non nell’alquanto confuso e raggelante finale. Il brevissimo epilogo sconquassa la mente dello spettatore immettendo nella narrazione un ultimo grande tema che cambia tutto, utilizzato tuttavia soltanto per scavare uno spiraglio di profondità ulteriore in questo boss nascostamente presente.

The Tax Collector

Allargando il campo d’indagine alla filmografia di David Ayer, e ritornando poi a The Tax Collector, riscontriamo la presenza di temi e situazioni leggendarie; queste sono tuttavia condannate a rimanere purtroppo esperienze puramente isolate nei vari film, a causa di uno sviluppo narrativo a tratti fin troppo forzato, autolesionista e irrispettoso nei confronti di quei personaggi dal sostrato epico e brillante.

Ad esempio in Fury (2014) la lunga scena dell’incontro tra il protagonista Norman e la civile tedesca, assieme agli effetti che questo ha sulla compagnia di Wardaddy, è di smagliante intensità. Tra le ragioni, vi è il fatto che l’incontrarsi amoroso tra queste due solitudini scatena la gelosia e la rabbia dei soldati vicini a Norman. Eppure queste emozioni così complesse sono risolte furbescamente con un ricongiungimento improvviso tra personaggi, soltanto per farli poi assemblare nell’ultima grande battaglia. Allo stesso modo, questo depotenziamento irritante dei personaggi lo si vede nel recente The Tax Collector: Creeper è il diavolo che senza battere ciglio minaccia un sicario con un trapano o che costringe a “confessare un furto” con una pistola direttamente puntata in bocca; Creeper è la “macchina” con occhiali da sole e gilet grigio che tuttavia rischia di cadere per prima.

In definitiva, The Tax Collector di David Ayer è il disastroso ritaglio di vite suburbane condannate a morte che tocca, ma non approfondisce, l’elegiaca purificazione dell’individuo attraverso il dolore e il sangue (“Per la mia famiglia vivo. Per la mia famiglia muoio. Per la mia famiglia…uccido”). L’ultima fatica di questo regista si allontana così sia dai grandi classici cinematografici sulla redenzione attraverso la violenza, come Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese, sia dalle primissime prove di scrittura dello stesso Ayer, ovvero Training Day, in cui si evince una meglio focalizzazione sul tema da trattare (la dialettica poliziotto “buono” e “cattivo” per antonomasia).

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