The Summit of the Gods, la recensione del film su Netflix

The Summit of the Gods (trailer) è l’adattamento del manga in cinque volumi di Jiro Taniguchi, a sua volta basato sul romanzo di Baku Yumemakura uscito nel 1998. La scelta di realizzare il film attraverso l’animazione non è stata dettata da un desiderio di riprodurre i disegni di Taniguchi aggiungendovi il movimento, quanto piuttosto dalla possibilità di poter aver un controllo maggiore sulla materia, evitando anche le possibili difficoltà che si sarebbero potute affacciare nel corso delle riprese (ma è bene ricordare che una versione in live-action è stata realizzata nel 2016 in Giappone con il titolo Everest: The Summit of the Gods, diretto da Hideyuki Hirayama).

Lo stesso regista Patrick Imbert, al suo secondo lavoro dopo Le Grand Méchant Renard et Autres Contes (co-diretto diretto insieme a Benjamin Renner) e già collaboratore per Ernest e Celestine, Avril et le monde truque e Corto Maltese: Corte Sconta detta Arcana, ha riconosciuto che il suo maggiore interesse era quello di iniettare nel progetto il massimo di realismo, sentendosi dunque in diritto di tradire i disegni di Taniguchi, lodandone comunque le capacità narrative e la bellezza delle composizioni. La storia prende le mosse dalla scoperta da parte del fotoreporter giapponese Fukamachi di una macchina fotografica appartenuta a George Mallory, alpinista scomparso nel 1924 durante il tentativo di scalata dell’Everest. La macchina si trova nelle mani di Joji Habu, alpinista di cui si sono perse le tracce a partire dal 1985.

A questo punto il film inizia a oscillare costantemente tra presente (la ricerca di Fukamachi) e passato (la storia di Habu) per stabilire una relazione a specchio tra i due personaggi. Habu ha dedicato tutta la sua vita all’alpinismo, ha sempre voluto dimostrare la propria superiorità a costo di sminuire gli altri, ha avuto una rivalità con un altro alpinista, Hase Tsuneo, ma è anche andato incontro a un trauma: la morte di un ragazzo durante una scalata, che ne ha incrinato le certezze e ha portato a farlo vivere nel senso di colpa. Lo shock lo ha spinto a isolarsi e chiudersi sempre più in sé stesso fino a scomparire. Parallelamente la ricerca di Fukamachi assume una connotazione sempre più ossessiva, arrivando a conoscere tutto della vita di Habu, isolandosi anch’egli e dedicandosi solo al tentativo di trovare l’alpinista e la macchina fotografica.

The Summit of the Gods recensione film Netflix

Che i due sono uno lo specchio dell’altro ce lo dicono due sequenze che alternano senza soluzione di continuità passato e presente. Nella prima vediamo Fukamachi osservare una registrazione di un telegiornale che annuncia la morte dell’alpinista Hase Tsuneo, alternata alle immagini di Habu nel passato che osserva lo stesso programma ma in diretta; nella seconda vediamo i due che si preparano per andare sull’Everest, sempre collocati su due piani temporali diversi (c’è da dire che questa relazione viene anche esplicitata in un dialogo tra i due che rischia di suonare come una puntualizzazione non necessaria: mai sottolineare con le parole quello che le immagini sono in grado di dire da sole o grazie al loro accostamento).

Accanto all’alternanza tra passato e presente se ne aggiungono altre due. Quella tra inquadrature più strette, spesso tra il campo medio e il primo piano durante i dialoghi tra i personaggi e nei momenti ambientati nella città, e i campi lunghi dedicati alla natura e alle montagne che sottolineano anche la piccolezza dell’uomo, il suo ridursi a punto nell’immensità degli spazi aperti e nel biancore della neve. E ancora il passaggio dal dialogo all’assenza di dialogo quando si tratta di fare la scalata, momento del confronto tra uomo e natura, e il ruolo di protagonista aggiunto attribuito al sonoro che porta in primo piano ogni piccolo rumore, fruscio di vento, colpo di piccozza. Habu e Fukamachi quindi, ma anche e soprattutto la montagna, la sua bellezza, la sua maestosità e la sua pericolosità rese visivamente grazie all’ ottima animazione in 2D, l’uso della profondità ottenuta attraverso l’attenta gestione del fuori fuoco, delle luci e dei colori e l’approccio fotorealistico.

Resta allora la grande domanda: “Perché lo fai? Cosa ti spinge a scalare le montagne?”. “Non so cosa sia” risponde Habu.  Arrivare in cima non è così importante, ogni scalatore troverà sempre una ragione per continuare e nuove sfide sempre più estreme da affrontare; non è importante essere i numeri 1 e ottenere il riconoscimento per le proprie imprese; non è importante scoprire se George Mallory nel 1924 ha raggiunto la cima dell’Everest per poi morire durante la discesa, anche se questo potrebbe cambiare la storia dell’alpinismo (e in effetti alla fine la ricerca della macchina fotografica con dentro il rullo finisce con l’essere più un MacGuffin). Quello che conta è l’esperienza, il brivido, quel momento sul crinale di due estremi, la commistione di fascinazione e terrore, del massimo sentirsi vivi e della massima paura della morte. Non c’è una ragione. Ma se Fukamachi giunge a questa conclusione alla fine, Il film sembra essere strutturato su di essa e forse questo è anche il suo limite. Il film è disponibile su Netflix.

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